Scuro Chiaro

La sera si ciondolava per la via. Erano là gli unici due locali del posto. Bevevamo fino a stordirci una volta in uno e l’altra nel secondo, cosicché in capo a una settimana avevamo fatto conoscenza con tutti gli sfaticati e derelitti che componevano quel microcosmo di fallimento e autocommiserazione e, per certi versi, ne facevamo parte.

Durante il giorno non ci s’incontrava né ci si cercava. Chico partiva nel palmo dell’alba per le sue escursioni all’interno dell’isola; io mi svegliavo tardi, cacciavo nello zaino un libro, un taccuino e un paio di matite e m’incamminavo costeggiando la battigia. Procedevo lentamente, cercando di svuotare il cervello e godere del silenzio e dei colori. Percorrevo chilometri coi piedi nell’acqua, di tanto in tanto risalendo le dune per fermarmi a riposare o a leggere. Dall’alto di quegli avamposti di sabbia del colore del gesso potevo scorgere le grandi distese di sale biancheggiare in lontananza.

Solo la sera, per tacito accordo, ci si trovava nella grande sala per cenare. Io m’abbuffavo, mentre Loris, lento e calmo di natura, era misurato anche a tavola. Sceglieva con cura gli alimenti, li abbinava con rigore, m’invitava a mangiare frutta. «Prendi la papaya, fa bene», diceva, «e poi non la trovi più così buona».

La frutta arrivava dalle piantagioni all’interno dell’isola, una delle più piccole di quell’arcipelago che affiora dall’Atlantico, a cinquecento chilometri dalla costa africana. Noi alloggiavamo all’estremo sud, a poca distanza da Santa Maria, che con meno di duemila anime è il centro abitato più popoloso dell’isola.

Privo della benché minima attrazione, quel piccolo villaggio di pescatori esercitava su di noi un fascino insondabile. Di ritorno dalle mie camminate mi fermavo spesso al porticciolo dove, a pochi metri dal molo, ragazzi sui quindici anni staccavano con grossi coltelli la testa ai pesci appena pescati. Era per me uno spettacolo affascinante: sedevo in disparte, all’ombra, e li guardavo rapito.

Parlavano un misto di portoghese e dialetto locale. Molti conoscevano l’italiano e una volta finito il lavoro venivano da me cercando di vendermi piccole tartarughe intagliate nel legno. Un giorno ne comprai una e la portai con me al bar per mostrarla a Chico. La poggiai sul tavolino e una cameriera, una bella ragazza nera spigliata e coi fianchi larghi, la vide.

La giovane ci spiegò che la tartaruga era per loro simbolo di fortuna e facendo un cenno con la mano ci invitò a entrare.

«Non l’avrai presa perché credi davvero che porti fortuna?», mi chiese Chico. «No, l’ho presa semplicemente perché mi piace». Allargò un sorriso: «Beh, faresti bene a crederlo invece. Le cose vanno davvero così… almeno a queste latitudini».

Lo guardai perplesso e lui si fece una risata. Bevemmo un sorso delle nostre birre e seguimmo la ragazza dietro il bancone. Ci condusse in un angolo del locale privo di tavoli e qui, scostata una tenda, ci fece entrare in un’angusta stanza in penombra e se ne andò. Stipate in ogni angolo, per terra e su piccole mensole, collanine, statuette intagliate nel legno e nell’osso, tartarughe come la mia. Appesi ovunque, splendidi batik colorati.

Dalla tenda entrò un uomo di colore sui cinquant’anni. Ci superava di diversi centimetri in altezza e portava vestiti tradizionali – abiti che nessuno usava più, nemmeno gli anziani del luogo. Un po’ in italiano un po’ in spagnolo, ciarlammo a lungo con quell’estraneo e ne apprezzammo la gentilezza nei modi e la profondità del pensiero. Parlò della vita sull’isola, di come stava cambiando con l’irrobustirsi del turismo di massa e delle multinazionali europee che avevano ormai strappato il monopolio delle costruzioni edili alle piccole imprese locali.

Tornammo altre volte in quel locale, ma non vedemmo più l’uomo. Sedevamo ai tavoli di plastica con le sedie spaiate. Di tanto in tanto chiedevamo di lui a nuove cameriere, ma le risposte erano sempre vaghe. «Forse domani», dicevano portandoci da bere e andandosene con un sorriso.

Restavamo allora a guardare la strada. Certe sere si parlava e si beveva e si fumava fino a notte. Altre volte io e Chico restavamo a guardare la strada dicendoci poco o niente. Era l’unica strada del paese. Stretta da permettere a fatica il transito a due pick-up contemporaneamente, non era asfaltata e buttava polvere a ogni bava di vento.

Dai nostri tavoli osservavamo il transito stanco di vecchie auto. Le guardavamo fermarsi – qualcuno si sbracciava dall’abitacolo, due scendevano i tre scalini del locale e si fermavano a chiacchierare. Ogni tanto un colpo di clacson, un pick-up passava e un cane correva verso la radura appena oltre la carreggiata.

Il tempo scorreva lento. Ti portava oltre la notte e non te ne accorgevi. Il loro tempo, il loro ritmo era così lento da indurti a pensare che non avessero altra alba da aspettare. Era questo a fare la differenza, perché quel posto era in fondo uguale a milioni d’altri al mondo, eppure unico come i suoi ritmi.

Là, al caldo delle sere all’equatore, si sommavano mille solitudini tenendosi compagnia. Solo i pochi occidentali di passaggio, così mi sembrava, davano l’idea d’esserne vagamente consci.

Ne parlai una sera con Chico – faceva meno caldo del solito ed ero incline alla conversazione introspettiva. Mi ascoltò in silenzio fissando la strada, poi, senza distogliere lo sguardo dal gruppo di africani che parlava a voce alta gesticolando al chiarore dell’insegna, fece cenno alla cameriera di portarci dell’altra birra.

«Tu parli di solitudine, una condizione più spesso reale che non esistenziale», disse finalmente. «Quante volte nella vita ci troviamo a inseguire, a cercare consciamente uno status seppure momentaneo di solitudine? Tu parli di un disagio, così come l’uomo afflitto da un male incurabile parlerebbe d’un disturbo del sonno. È il nesso tra la patologia e il sintomo, vedi, perché tu parli di solitudine, ma è della mancanza di comprensione che in realtà ti lamenti».

Si fermò qualche secondo. «Quando non la cerchiamo, possiamo arginare la solitudine, perfino conviverci», riprese. «Ma è dalla mancanza di comprensione, è dall’annichilimento dell’individuo che ne deriva, che non possiamo fuggire. L’impossibilità di comunicare… peggio, il comunicare non potendo essere compresi, per dirla con Pasolini: questo marca il vuoto attorno a noi. Questo eleva la solitudine al rango esistenziale e la rende, adesso sì, una condizione ultima. L’incomprensione, vedi, è l’ultima stazione di un treno creato per procedere in un solo senso. E’ il capolinea della condizione umana; una fermata nel deserto. Non importa se resterai seduto o deciderai di scendere, perché giunto a quel punto non farà più alcuna differenza. Puoi forse fermare la solitudine, ma non puoi avere comprensione laddove essa non è mai nata, né dispone delle condizioni per poter nascere».

Si fermò e si voltò verso di me. Sorrideva d’un sorriso bonario. «Io con le mie escursioni, tu con le tue camminate: cerchiamo la solitudine durante il giorno per trovare comprensione reciproca la sera, davanti a questa strada. Per comunicare con qualcuno sapendo che sarà anzitutto ciò che non diremo ad essere ascoltato e condiviso».

Tornò a guardare la strada e così feci anch’io. Il lungo silenzio che chiuse quella conversazione sembrava voler corroborare la sua tesi. Isolati nelle nostre congetture potevamo sentire la risacca lontana.

Ripensai al senso di alienazione trasmesso da quelle enormi distese candide che osservavo durante il giorno e decisi che l’indomani mi sarei spinto fino all’altro capo. Alle saline.

(maggio 2011)

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