Dark Light

Questa sì che era vita: girare, fermarsi e poi proseguire, sempre seguendo il nastro bianco che si snoda lungo la costa sinuosa, liberandosi di ogni tensione, una sigaretta dopo l’altra, e cercando invano delle risposte nell’enigmatico cielo del deserto.

(John Fante, Ask The Dust)


La Paz, Baja California Sud. Le sei del mattino.
Una pioggia fine vela la linea rosa dell’alba. Cade senza fare rumore. È impalpabile, delicata sui rami della grande palma al centro del patio. Si posa sul selciato lucido delle strade che sfumano in lontananza nel mare piatto.

L’uragano sta arrivando.

Lunghe braccia d’afa e bassa pressione cingono la città al risveglio e la cullano prima di lacerarne le carni. A sera niente avrà più quest’ordine. Solo il silenzio resterà – cornice di un quadro stravolto in poche ore.

In un angolo del patio, poggiato al muro, fumo una sigaretta domandandomi da quante ore non chiudo gli occhi. Questo caldo vince anche la stanchezza del viaggio. Le lenzuola sono umide e l’aria pesante come piombo compresso in quattro metri quadri. Non posso tornare in quella stanza. Non dopo avere varcato la linea dell’alba. Dopo averne violato i riflessi e il silenzio. Non ora, mentre il tempo rallenta in questo scorrere di minuti – questo sciogliersi di minuti. Ora che ho visto l’oceano insinuarsi nel golfo e farsi mare. Lo scorgo in fondo, oltre la fontana, dopo la strada e i filari di palme, dove l’orizzonte si assottiglia nella luce perdendosi.

Osservo l’edificio. Dominano il giallo e il rosso mattone. Più in là il blu e il bianco; qua l’arancione e il verde. E l’ocra – quanto ocra a tingere questa città. C’è da commuoversi solo a veder colori, in questa parte di Messico, dove un uragano sconvolgerà presto la quiete e dove, pure, già mi sento così protetto da tutto il resto da non voler più tornare.

Al di là delle larghe nubi antracite cresce il sole. Sale lento. L’aria è satura anche qui fuori, come in camera. La Paz si sveglia stanca.

A colazione apprendiamo che l’uragano si è abbattuto su Cabo San Lucas, all’estremo Sud. Il vento del Pacifico lo spinge all’interno, in direzione Nordest, ma prima di superare il Mar di Cortez e mordere il Sonora farà scempio della parte bassa della Baja. Siamo sulla traiettoria. Impossibile andare a Sud, possiamo solo guadagnare tempo salendo a Nord prima che le strade vengano chiuse e La Paz resti isolata.

Decidiamo di partire nel tardo pomeriggio. In tre ore di viaggio saremo a Loreto. Contiamo di lasciarci l’uragano alle spalle concedendogli il tempo di deviare verso il Continente.

Ce ne andiamo in giro per il centro di La Paz, una città di cui ricordo il nitore delle abitazioni, d’un bianco quasi violento, e il blu intenso del mare. Sembrano custodire chissà quali silenzi, quelle acque. Al mercato acquisto per pochi dollari un buon cappello e qualcosa da mangiare. Il caldo si è fatto opprimente. L’afa toglie il respiro, bagna i vestiti – avanguardie della tempesta che preme da Sud.

Anticipiamo la partenza per fare tappa a Santa Rita e Ciudad Constitucion, due piccoli pueblo sulla Mexico Uno. Ricordo la facciata bianca e nuda della chiesa di Santa Rita, le linee semplici, aggraziate. A Ciudad vaghiamo in silenzio per strade deserte tra muretti bassi in pietra.

Più d’ogni altra cosa, di quel nostro fuggire a Nord, ricordo la strada. La carreggiata lambita dalla roccia, tracciata a fatica dove la natura ha acconsentito a lasciarsi violare tra la montagna e la valle. D’improvviso, lunghi tratti si aprono tra ampie vallate brulle – larghe distese di bassa vegetazione e sterpaglia interrotta da massi e alti saguari e declivi dolci, dall’alto dei quali è possibile godere della quiete delle aride colline.

Spesso, invitati da un piccolo spiazzo a lato della carreggiata, ci fermiamo ai margini del deserto, dove lasciamo l’auto per addentrarci a piedi tra bassi cespugli secchi e macchie di piante grasse assetate. Non un suono si ode oltre a quello prodotto dal vento – non un rumore, se non il sordo rotolare di pietre colpite accidentalmente dai nostri passi.

E quanto mi impressiona l’aria asettica, priva di qualsiasi odore, sotto gli ampi strati di nubi bianche. È, nel suo essere in eterna e silente attesa, l’essenza stessa di questo deserto che ci illudiamo di conquistare con pochi passi. Profondo e smisurato, sembra non conoscere tempo a dispetto di tutta quella vita brulicante e discreta che segretamente custodisce.

Ancora uno sguardo a questa distesa fuori dal tempo, poi imbocchiamo nuovamente la Mexico Uno fino alla deviazione che conduce a Loreto lungo una stretta carretera non asfaltata. Chiusa da due filari di piante, la carretera, fattasi ora strada principale, termina in una piccola piazza. È il centro di Loreto, piccolo pueblo sbocciato come una pausa per la mente dopo tanto vagare tra vallate asciutte e ampi pianori.

Lasciata l’auto lungo la via, proseguiamo a piedi nel chiarore del tramonto, fino a che l’insegna di una delle due sole posade del paese richiama la nostra attenzione.

L’albergo non ha altri ospiti; è piccolo, modesto e d’un pacificante biancore. Appunto qualche pensiero mentre con lo sguardo scorro il perimetro del cortile sul quale si affacciano le stanze. Dall’arco d’ingresso sulla via principale, di tanto in tanto, filtra il basso brusio d’un motore.

In serata scegliamo un ristorante al primo piano di una vecchia costruzione a lato della piazza. La sala è piccola ma accogliente, dominata da un grosso bancone in legno dietro al quale si apre la cucina. Soltanto due tavoli sono occupati. Ne prendiamo uno in disparte, accanto alla finestra aperta. Ordiniamo chili relleno, tortillas e cerveza.

Nel buio oltre la finestra assaporo il ticchettare in crescendo della pioggia. Rari tuoni in distanza interrompono il silenzio, ma non vediamo lampi a preannunciarli.

Huracán, huracán!”, ripete il proprietario tutta sera entrando e uscendo dalla cucina.

Parliamo poco e mangiamo con calma, lasciando fluire la stanchezza. Un rombo più forte degli altri attira la mia attenzione. Mi affaccio alla finestra – piove forte e le strade sono deserte. Il locale è ormai vuoto. Il proprietario non sembra avere fretta – “Huracán, huracán!”, dice sorridendo. Ci offre tequila e cerveza e siede con noi per il resto della serata. Dice che l’uragano arriverà prima dell’alba. Loreto è già isolata: a Sud le strade sono sbarrate, quelle per il Nord lo saranno da domani.

Rientrati nella posada, mi addormento presto e dormo male. Dalla finestra socchiusa si insinua il rumore lieve della pioggia, un picchiettare fitto e monotono, come di spilli che cadono senza sosta sulla tettoia oltre la porta. Un tuono mi sveglia di soprassalto. Un lampo, un secondo tuono, un nuovo lampo nella luce crepuscolare e un fragore cupo, come di ciottoli che rotolano. Infine uno schiocco, un colpo secco. Lo scrosciare improvviso della pioggia e un suono basso, strisciante, veloce – un fischio tra fronde poco distanti. Un soffio lunghissimo sale al culmine perdendosi lontano, come avvitandosi su se stesso per spegnersi nel temporale.

Mi alzo e mi avvicino alla finestra. Il cielo è del colore dell’ossidiana. È l’ora in cui la notte scivola sull’alba coincidendo per un istante con essa.

Mi vesto in silenzio, esco. Aria fredda e sciaguattare d’acqua nel silenzio. Protetto dal portico raggiungo l’ingresso, dove il proprietario – un uomo robusto con grossi baffi spioventi – siede in compagnia d’un tizio con la pipa. Mi salutano, per nulla sorpresi di vedermi a quest’ora. Dicono che l’uragano è passato. Mi informarono che il paese è isolato e non c’è corrente.

Guardo oltre l’arco d’ingresso e mi dirigo all’esterno. Una distesa d’acqua e fango colma la strada fino a lambire i marciapiedi. Cade una pioggia leggera ma insistente. Nel mezzo di questo fiume sporco affiorano cartelli stradali abbattuti, grosse pietre e rami. L’acqua copre la metà inferiore delle ruote delle auto, i marciapiedi sono ostruiti da mucchi di fango e calcinacci.

Non scorgo persone sotto il cielo fattosi infine d’un celeste freddo, argenteo. Resto a lungo a guardare quella devastazione. Il silenzio, i rari rumori ovattati, il lascito della forza dell’uragano e lo scorrere dell’acqua verso il centro del paese: tutto contribuisce a quella sensazione d’irrealtà che mi paralizza. Sembra, davanti a tanto disordine, d’essere precipitati oltre il mondo conosciuto – in un angolo dimenticato e rovesciato.

Trovo una sedia sotto il portico. Le do una pulita e mi ci accomodo finché fa luce piena. Passo ore fissando tutto quel fango asciugare lentamente, mentre poco a poco il paese si sveglia e la gente, come fosse abituata a tanta distruzione, si dà da fare per sistemare, pulire e tornare alla vita.

I tavolini e le sedie del patio sono ribaltati e sparsi in disordine – come se un’enorme braccio, d’improvviso passato attraverso l’ingresso, avesse frugato con furia in quell’angusto cortile. I quattro arbusti agli angoli giacciono tristi – le foglie sparse, i vasi rotti e la terra fuoriuscita a mischiarsi con l’acqua che lo scolo al centro non riesce a inghiottire.

Mi rassegno a tirar sera accontentandomi d’un breve giro per il paese, tra operai al lavoro, la polizia a presidiare le uscite e uomini coi risvolti ai calzoni, impegnati a rassettare alla meglio.

Rientrato in albergo, mangio gallette poggiato allo stipite della porta della camera quando, una scopa di saggina in una mano e un secchio nell’altra, il proprietario mi si avvicina. Fischietta un motivo che non conosco.

Giunto alla mia altezza, smette di fischiare. Si ferma e si volge abbracciando con lo sguardo il suo albergo allagato. Sorride di nuovo allargando i baffi spioventi. Mi fissa negli occhi: “Mucha agua, ah?”. Ride e passa oltre.

Le spalle sempre ancorate allo stipite, è solo una decina di minuti più tardi che realizzo d’aver beneficiato, in quel surreale tardo pomeriggio, di uno dei migliori esempi su come rispondere agli inciampi della vita.

(giugno 2011)

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