“È difficile sottrarsi all’impressione che gli esseri umani siano soliti applicare criteri di valutazione errati,
che ambiscano al potere, al successo e alla ricchezza,
e li ammirino negli altri, ma sottovalutino i valori autentici della vita”.
Sigmund Freud, Il disagio nella civiltà
1
CARTER THOUGHT, NATHANIEL. Scadenza: 11 luglio 2033, ore 22.04.
Tra le infinite possibilità di cui un uomo dispone per togliersi la vita, Nathaniel Carter Thought aveva scelto la più cruda e impegnativa. Per quanto singolare, la decisione non era priva di una solida ragione – sei mesi erano troppi, non avrebbe retto.
In fondo, considerava tra sé e sé la sera del 28 novembre 2032 nel suo appartamento dall’arredo minimalista e freddo, la parte più difficile sarebbe stata sgombrare la mente al punto da non darle modo di attivare per tempo l’istinto di sopravvivenza.
Questione di una frazione di secondo.
Un’infinitesimale scheggia di tempo per ingannare il cervello, inviare l’impulso e agire prima che il suo io primitivo si intromettesse.
Il resto lo avrebbero fatto lo scatto rapidissimo dei gomiti, la forza bruta delle braccia e la pressione dei polsi contro il petto. A quel punto l’istinto di sopravvivenza sarebbe stato fottuto. Facesse pure quel che doveva, sarebbe stato comunque tardi.
Più ci pensava – e Carter ci rimuginava ormai da settimane – più si convinceva che in definitiva stava lì la difficoltà.
Determinazione e rapidità.
Quanto alla prima, l’aveva maturata, plasmata e forgiata negli ultimi mesi sbarazzandosi di remore e dubbi. Era la rapidità d’azione a preoccuparlo.
“Azzerare i tempi di reazione. Un millesimo di secondo”, si ripeteva mentalmente mentre soppesava il coltello acquistato un mese prima. Ventidue centimetri di lama più i dodici dell’impugnatura. Acciaio di qualità. Non voleva certo un utensile da quattro soldi che potesse flettersi o spezzarsi nel momento cruciale.
La lama, larga tre centimetri, curvava dolcemente lungo la parte inferiore, affilata come un rasoio. Correva dritta nella parte alta, spessa pochi millimetri, fatti salvi gli ultimi due centimetri, che, stretti e acuminati, flettevano verso il basso per incontrare il filo levigato formando una punta aguzza. Non fosse stato per il dorso dritto e per il manico in legno scuro, la si sarebbe potuta scambiare per una baionetta. In ogni caso era perfetta per lo scopo – entrare con precisione, scivolare senza attrito e raggiungere il bersaglio nel più breve tempo possibile.
Posò il coltello sul mobiletto e afferrò il bicchiere con mano tremante. Andò alla finestra, scostò le tende. Ancora pochi minuti e sarebbe venuto buio.
Gli occhi tutto vedevano ma niente osservavano, se non la rifrazione del suo tempo passato.
Si scoprì a ripercorrere la sua vita.
Dunque è davvero così che funziona prima di morire.
Aveva da poco compiuto trentatré anni. Orfano da quando ne aveva dodici, era stato cresciuto dai nonni materni nel migliore dei modi. La rendita assicuratagli dal patrimonio di famiglia gli aveva consentito di compiere un regolare percorso scolastico, proseguito con studi universitari conclusi brillantemente, indirizzandolo nel campo dell’insegnamento della filosofia.
Portavano la sua firma due saggi, il secondo dei quali, tradotto in cinque lingue, stava consolidando la sua reputazione in campo accademico.
Sfilò il massiccio volume dalla libreria. Aggrottò la fronte e lo sfogliò distrattamente.
Avresti potuto garantirmi un futuro.
Scosse la testa e rimise il saggio al suo posto.
La sua esistenza, pensò, era una curva in ascesa e densa di aspettative, il cui apice era ancora da lambire quando tutto era franato improvvisamente. Mesi prima, con l’accertamento dei primi casi, la curva si era interrotta bruscamente e tutto era sprofondato in un’infernale, tetra gola che l’aveva condotto a quella sera.
Con un lungo sorso terminò la sua terza vodka liscia confidando di mitigare l’agitazione. Poggiò il bicchiere sul ripiano, riprese il coltello e andò a sedersi nell’ampia poltrona in salotto. Con la mano libera sbottonò la camicia per tre quarti – niente avrebbe dovuto intromettersi tra la lama e il suo obiettivo.
Si apprestò a compiere l’operazione in un pacificante stato di annebbiamento cerebrale. Un’assenza dell’io, poiché immagini e parole e pensieri si alternavano comunque senza sosta nel suo intelletto intorbidito.
Respirò a fondo.
Undici luglio. Troppo lontano.
Dicevano che non c’era verso di morire prima della scadenza. In molti ci avevano provato. Dicevano. Lui non ne era convinto. Forse nessuno aveva puntato dritto al cuore.
Indistinto, un ricordo gli attraversò la mente. Scacciò l’immagine e si impose la calma. Respirò a fondo due, tre volte.
Non posso fermare i pensieri, ma è un frammento di secondo quel che mi serve.
Tornò a tacitare il dialogo interiore esercitando l’arte più difficile che l’uomo conosca: placare la mente e interrompere il flusso sensoriale. Non ci riuscì del tutto, ma arrivò a porsi in una sorta di stato di meditazione lasciandosi cullare dal suo stesso respiro lento e ritmato – gli occhi chiusi, le braccia allungate davanti a sé.
“Scadenza” fu l’ultima parola che si materializzò a tradimento nella sua corteccia cerebrale dopo che ebbe espirato profondamente, facendo scattare i gomiti – il coltello saldamente impugnato con entrambe le mani.
Fu un movimento fulmineo. Le braccia si flessero di colpo, conficcando la lama quasi a metà del petto, due centimetri e mezzo sopra il capezzolo sinistro. La punta penetrò la carne fratturando lo sterno con uno schiocco secco.
Il dolore esplose lancinante e quello fu il segnale che lo indusse a premere con tutta la forza che aveva. Spinse così a fondo da convincersi che la lama avrebbe bucato il polmone, passando da parte a parte.
Quando il dolore raggiunse un’intensità che mai avrebbe ritenuto possibile, pensò di aver raggiunto lo scopo. Aveva trapassato il cuore.
È fatta.
Si sentì libero e gioì mentre i sensi lo abbandonavano.
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Questo è l’incipit del mio romanzo “Il giorno immutabile“, edito da AFFIORI – GRUPPO GIULIO PERRONE EDITORE.
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