Dark Light

L’ufficio era ordinato, pulito; l’arredamento sobrio. Dalla porta socchiusa riusciva a sbirciare nella sala, quella grande che usavano per esporci il campionario. Addossate alla parete lunga se ne stavano dieci bare lucide a mandare riflessi acquosi. Gli parevano una tavolozza di marroni, quelle casse, un cromatismo malato, stanco. Splendevano di là, impilate cinque a cinque sui loro supporti di metallo come fossero cassette per la frutta – smisurate e vuote, però.

Una, poggiata a terra al centro della sala, era aperta. Gli avevano piazzato un rialzo dalla parte della testa, così uno poteva guardarci dentro, vedere la fodera di seta bianca e il cuscinetto, bianco anche quello. Messa a quel modo, la cassa, uno ci si sarebbe potuto figurare sdraiato al suo interno, allungato per bene, comodo per l’eternità. E tanti saluti a voi che portate i fiori.

Guardò a destra. Dieci urne, lisce e lucide anche quelle, tutte col loro rettangolo di metallo per inciderci su il nome dell’inquilino, erano in fila su uno scaffale di cristallo a metà della parete corta.

Cacciò un grugnito, un raschio di gola per il disgusto. Si voltò, tornò a guardare il piccolo ufficio dove sedeva. C’era niente che lo facesse sentire comodo, là dentro. Un luogo provvisorio, era quello. Come la vita, che mica per niente là dentro si veniva a discutere del dopo. Non c’erano libri o riviste, come dai dottori, che ce le trovi con le pagine patinate ormai secche – al loro posto solo grossi faldoni in fila su uno scaffaletto.

“Di qua i faldoni, di là le urne”, pensò. “Carta e cenere. Prima siamo carta e scartoffie, per tutta una vita, poi cenere, noi e le nostre scartoffie che ci hanno scandito la vita. Bell’affare l’è questo”.

«Bello per davvero» disse, e aggrottò.


Scosse la testa, buttò un’occhiata al computer, al telefono, al fax. Guardò la stampa appesa alla parete di fronte, appena dietro la poltrona vuota del titolare. La vista fiaccata non lo aiutava, ma gli sembrò di riconoscere in quell’opera un borgo famoso.

«Castelforte, Liguria».

L’uomo entrò di fretta, gli tese la mano. Il vecchio si alzò, allungò la destra per ricambiare il saluto.

«Stia, stia» fece quello.

«Ah, ecco… Castelforte.» disse impacciato. «Mi sembrava di conoscerlo, ci sono stato tanti anni fa con la mia signora…»

Si fermò – gli occhi velati, la testa abbassata.


«Quanti anni aveva?», chiese l’altro andando a sedersi.
«Ne avrebbe fatti ottantatré domani», disse. «Ottantatré…», ripeté cedendo un poco alle lacrime.


«Non avete figli, nipoti? Altri parenti?» chiese l’uomo con garbo.


«No. Nessuno. Figli non c’è riuscito d’averne. Aveva un fratello, ma è morto che era bambino. Non ha avuto che me. E io son figlio unico. Non avevo che lei».

«Non si preoccupi, pensiamo a tutto noi».

Le intenzioni di quello di là dal tavolo, i suoi sforzi per mettere un poco a suo agio quel vecchio spaventato eppure così composto nella sua pena, parevano sinceri. Ma c’era mica verso. Là dentro, in un momento così, poi…

«Vede…» disse il vecchio e subito tossì. «Ecco, non so cosa si fa in questi casi».

L’altro si avvicinò al tavolo con la sedia.

«Per questo ci sono le agenzie. Non deve preoccuparsi, pensi solo a scegliere. Le darò una mano. Siamo a sua disposizione». Spostò due carte, prese un volumetto.

«Ecco il catalogo. Poi le dirò quali sono gli espletamenti di legge e quali i nostri servizi aggiuntivi, se riterrà, in base alla cerimonia…»

«Semplice, la voglio. Dignitosa ma semplice. Quel che c’è da fare, nient’altro».

Sicuro, era sicuro il vecchio. E asciutto e duro. Tirò su col naso, si lisciò la giacca. Attese.

«Come vuole. Sono qui per consigliarla», disse l’altro, e aprì un faldone sfilato da quelli dietro, tutti in fila come i registri all’anagrafe. Lo fece ruotare sul tavolo, così che il vecchio potesse imparare alla svelta pregi e fattura e prezzi degli articoli e dei servizi garantiti dalla premiata impresa Fantini e Figli – onoranze funebri in Roncofreno dal 1958.

Ne venne un lungo silenzio. Il viso calato sulle pagine del catalogo, il vecchio rimuginava. Scorreva le immagini, leggeva. Ora approvava, ora no. Qua una cassa, là un’urna. Ce n’era di tutti i tipi, di tutti i colori, da averci l’imbarazzo della scelta. Il Fantini, a occhio e croce il più giovane dei figli della premiata, poggiò le spalle alla poltrona e giunse le mani sotto il mento fissando il vecchio in silenzio. Assecondava, a quel modo, la zitta preghiera di riservatezza del cliente.

«Questa» disse alla fine il vecchio poggiando delicatamente l’indice a metà della pagina. E subito gli era venuto in mente quando si va al ristorante in un paese straniero, e si fa i salti mortali per capire qualcosa del menù e al cameriere si ordina col dito sulla carta, senza dir niente, sperando di non aver confuso lo stinco del maiale con la spigola al forno.

Ma qui c’erano le figure, ci si poteva mica sbagliare. Così aveva scelto una bella cassa in larice rossastro, semplice, senza ornamenti di sorta.

L’altro abbassò le mani, si sporse avanti. «Sì» disse soltanto. Poi, tirato a sé il faldone, prese un foglio e una penna. Annotò qualcosa, alzò la testa.

«Le farò un elenco…»


«No. Mi dica solo quanto costa il servizio».


Il Fantini trasecolò.


«Ma… Lei capirà, non è così immediato» disse. «Vede, ci sono pratiche obbligatorie e pratiche… Ecco, le spiego…»


«C’è niente da spiegare. Sono un uomo semplice, io, ma sono un uomo preciso».


Era tutto serio in volto. Il Fantini capì subito che c’era poco da discutere con quella faccia.


Il vecchio si fece avanti, allungò il collo. «Voglio solo una cerimonia dignitosa» disse. «Metta quello che è necessario. E le pratiche di legge, si capisce».

Il Fantini, che quando voleva era un ragazzo intelligente, la finì lì. Si mise al computer. «Mi dia qualche minuto» disse.

Il vecchio rimase in attesa – pareva soddisfatto, si guardava la fede al dito. Di fronte, ticchettio svelto sui tasti, silenzio, fruscio di fogli, altro ticchettio. Cinque minuti dopo, com’era finito il tic tac, la stampante diede uno scatto secco, emise un ronzio basso e sputò un foglio scritto per metà.

«Ecco», disse il Fantini allungando il pezzo di carta. «Ho incluso le pratiche per la richiesta del certificato necroscopico, quelle per il nulla osta del medico d’igiene pubblica, i diritti sanitari, cimiteriali e comunali…».

Il vecchio si agitò sulla sedia. Sembrava in ansia. «Pensate voi a tutto?»

«Rientra nel servizio. Dicevo… spese per composizione e stampa di epigrafi e foto…»

«È questo qui il totale?»


«Qui in fondo, ecco».


«Le firmo un assegno».


«La prego, non ora. C’è tempo per questo».


Ci restò come di fronte a un’offesa, il vecchio. “Ma guarda! Li fa tutti signori, la morte. Anche questi qua che ci campano”, pensò prima di riaprire bocca.

«Sono un uomo preciso. Preferirei saldare ora» disse.


«Non è possibile, dobbiamo prima preparare le carte».


Scuoteva la testa, il Fantini. Stavolta non gliela dava vinta – eh no, per la miseria, poteva mica.


«Mi lasci piuttosto il suo indirizzo» disse. «Per domani. A che ora mando il personale per preparare…»

«Presto. Domani mattina presto. Alle sette?»


Gli pareva, al titolare della premiata, che a quella sopraggiunta condizione di solitudine il vecchio non trovasse altra maniera di reagire se non con l’impeto dell’urgenza.

«Alle sette, sta bene», concluse il Fantini allungando la mano. E, rinnovandogli le condoglianze, congedò il signore là davanti, uomo preciso come quasi mai gli era capitato di incontrare in tanti anni di tetro lavoro alla premiata.

II.

Come lasciò l’agenzia, al vecchio piombò in capo la solitudine. Una solitudine dai contorni slabbrati – tanto grande da sembrargli gocciolare dentro l’eternità, e di là perdersi. Sul marciapiede esitava. Il passo gli si era fatto incerto. Non era il timore di tornare in quella casa a spaventarlo. No, quello non si poteva dire – era la paura della stanza, la paura di trovarsi ancora, là in casa, a guardar fuori da quella stanza con la porta chiusa. Tutto voleva, fuorché rivedere quella porta.

Indugiava. Perdeva tempo per la via. Voltava di qua e passava per un vicolo, traversava una piazza e tornava indietro. Ci passò il mattino intero a quel modo. Prima camminava senza una meta, poi sedeva in un caffè, si provava a cacciar via i ricordi un po’ come poteva, voltando le pagine di un giornale. Grumi di pensieri attorcigliati, addensati e grigi e aspri da raschiar la gola gli venivano su dal petto insieme al respiro. In capo a qualche ora finì per sentirsi annoiato, il grumo sprofondato giù da qualche parte, stanco anche lui di venir su insieme col fiato a dargli il tormento.

A mezzogiorno passato buttò il giornale sul tavolo vicino. Non aveva fame, e di andare a casa non se ne parlava nemmeno. Camminò fino alla periferia e di tanto in tanto sedeva su una panchina. Riposava, masticava e biascicava come fanno i vecchi quando sono fermi e c’è niente da fare. Le ore percolavano via pigre, pareva non volessero staccarsi mai.

A metà del pomeriggio gli venne su di colpo, più denso di prima, e stavolta era più nero che grigio. Gli si fermò alla gola, il grumo, gli mandò la rassegnazione a farsi benedire. Si decise a tornare verso casa. In fin dei conti, pensò, prima o dopo in quella casa doveva pur andare, tanto valeva metter l’animo in pace, finirla con tutto quel girare che era solo inganno, e pace non gliene dava.

Arrivò con la luce della sera che già si allungava sulla facciata del vecchio condominio. Entrò e si tirò dietro la porta. Si tolse la giacca e si buttò sfinito sul divano. Restò là, seduto nella penombra a far niente. Il respiro gli usciva a fatica.

Alla sua destra non voleva guardare. C’era la stanza da letto, in fondo al corridoio, dietro la porta chiusa. Ma anche a voler star là immobile, il collo duro come un ceppo, non c’era verso di ignorare la lucetta. Gli batteva sulla nuca. Un piccolo bagliore, giusto a dire che c’era. Era la luce della sera che veniva dentro dalla finestrella a metà dell’andito – diceva: “Son qua”, ed era tutto.

Non poteva farci niente per quel baluginio che gli ricordava il corridoio e, in fondo a quello, la stanza chiusa. Così, in difetto di coraggio, cercava di non pensare. Fingeva di non sentire la vocetta della luce, e intanto cacciava via l’impulso di voltarsi – quasi temesse di vederla là distesa, come l’ultima volta. A dispetto dell’andito e della porta chiusa.

Sapeva che sarebbe venuto il momento e l’avrebbe attraversato quel corridoio. Toccava farlo, rivedere quel luogo e tutto il resto – non ci poteva girare attorno per sempre. Però poteva ancora aspettare. Rimandare.

Così pensando, stava abbandonato al divano – gli occhi chiusi, il respiro pesante, finché dalla finestrella non venne più luce e il salotto e il corridoio sfumarono nel buio. Il buio che mette paura ai bambini e ai vecchi quando sono soli.

Sospeso a quella rappresentazione di un corridoio che non poteva ancora guardare, trascorse un’ora. Infine si tirò avanti, si alzò a fatica. Accese una luce. Andò allo scrittoio, vi restò un pugno di minuti a trafficare con carte e cassetti piccoli piccoli – ci stava mai dentro niente in quei tiretti. Come ebbe finito con le carte, se ne andò in bagno a rovistare nel mobiletto dove sua moglie teneva i medicinali. Li aveva tenuti in fila che neanche dal farmacista li vedevi così precisi. Gli faceva una testa così, la donna. Gliel’aveva cantata per anni – le scatole grosse con le grosse, i flaconi coi flaconi, le piccole con le piccole e le listarelle sfuse qua, nella scatoletta dei figli di nessuno, e un giorno si vedrà.

Dall’armadietto cavò tre confezioni basse, se le cacciò in tasca, spense la luce e andò in cucina, da dove uscì con un bicchiere d’acqua del rubinetto. Imboccò il corridoio, arrivò alla porta e si fermò. Esitò. Poggiò la mano sulla maniglia, la tolse, la rimise. Esitò ancora. Finalmente diede un colpo secco in giù.

L’odore umido, di aria viziata, pareva non aspettasse altro per esplodere, andargli incontro, abbracciarlo e stordirlo. Allora vacillò sulla soglia col nodo in gola, e intanto tastava il muro, cercava l’interruttore sulla destra. La luce lo strappò dal suo torpore, gli restituì l’immagine di una stanza vuota, ordinata ma polverosa. Non ci metteva piede da un anno e mezzo. Da quando sua moglie, l’Elvira, era morta.

III.

Restò in piedi a fissare quello spazio dove due vite sembravano essere deflagrate in migliaia d’istantanee, mischiate e sparse e disperse sul pavimento, sui mobili, appese alle pareti e persino al soffitto. Riusciva a pensare a niente, là dentro. Gli venivano a mente solo tutti quei momenti scompigliati, lasciati alla rinfusa come carte su un tavolo quando il gioco è finito.

Andò al bordo del letto, si lasciò cadere di traverso e gli pareva di pesare come due uomini, mentre un anno e mezzo di solitudine gli piombava addosso con la densità che solo il vuoto può avere. Gonfiava i polmoni, ma erano spugne secche. Con la mano frugò nella tasca, cavò fuori le tre scatole – erano pasticche che gli toccava prendere tutti i giorni, da un anno e mezzo, due volte al dì per arginare come poteva quel vuoto che gravava ora, aggrumato e insostenibile, sul suo tempo residuo.

Mentre capsule e compresse filavano giù per la gola a raggiungergli il grumo nero in fondo allo stomaco, vide la foto sul comò. Un uomo e una donna, due sessantenni, sorridevano all’obiettivo dalla piazza di un borgo. Increspò le labbra, solo un poco. Si alzò prendendo di tasca il fazzoletto, spolverò la piccola cornice. Riponendola, si scorse riflesso nella specchiera. Era spettinato, i vestiti stazzonati.

Tornò in sala e prese una camicia pulita dall’armadio. Si cambiò, si rimise la giacca, si ravviò i capelli tornando a passi lenti nella stanza da letto.

Buttò giù altre pillole, poi un sorso d’acqua. Diede un’ultima occhiata al lato vuoto del letto. Spense la luce e si coricò.

E là, grottesco nella precisione del suo inappuntabile vestire in attesa del sonno, non si chiese come sarebbe stato. Mise soltanto a fuoco il pensiero della porta di casa lasciata aperta, le chiavi sul divano e l’assegno per l’agenzia, compilato per bene, sullo scrittoio all’ingresso, in evidenza per chi sarebbe venuto l’indomani.

«Sono un uomo preciso», ripeté due volte all’oscurità, quasi a domandare licenza d’addormentarsi.

E il sonno venne presto, e venne prima che la campana, di lontano, potesse battere la mezzanotte sul suo ottantatreesimo compleanno.

Questo racconto è stato pubblicato dall’editore FUOCOfuochino e inserito nell’antologia “FUOCOfuochino 5”, del 2017. Con mia grande soddisfazione, nella stessa antologia compare anche un racconto dell’indimenticato Freak Antoni, poeta, scrittore, cantante e fondatore degli Skiantos.

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