Chico ha questo modo strano di roteare gli occhi per accompagnare ogni battuta di spirito. Ha l’aria di uno che ha girato il mondo. E lo ha fatto. Tu nomina un posto e lui te ne racconta ritmi, profumi e colori.
Trasmette immediatamente l’idea di essere uno che si aspetta ancora molto dalla vita, ma non tradisce l’inquietudine di chi non sa rispettarne i tempi. È come se fosse sempre in quieta attesa di qualcosa, sapendo che potrebbe arrivare domani, tra un anno o mai. Parla di “ritmo messicano”, ed è quello che trasmette.
È un buon randagio, Chico. È caustico e tagliente. Profondo e conscio dei suoi limiti. Soffre come tutti, anche se è difficile sorprenderlo vulnerabile.
A cinquant’anni suonati non ha una donna – «Due mogli mi sono bastate» proclama fiero roteando gli occhi.
Cura molto l’alimentazione e veste vagamente trasandato. Dice d’aver preso tutto da un suo zio ottantenne: «Un figlio di puttana coriaceo e burbero. L’uomo più generoso che abbia mai conosciuto».
C’è da credergli: certa saggezza viene solo da uomini che la vita l’hanno percorsa fino in fondo. Nel bene e nel male.
Mentre ci incamminiamo, dalla tasca dei bermuda pesca un coltello a serramanico. Se lo passa da una mano all’altra, poi me lo allunga facendolo volteggiare nella luce del tramonto. Afferro al volo. Faccio scattare la lama. Una decina di centimetri su cui si avventa il baluginio dell’unico lampione funzionante.
«Mio zio. È stato lui a insegnarmi come farlo passare in aeroporto» dice allargando un sorriso smaliziato. «M’è tornato buono almeno un paio di volte. Per ora. In Chiapas e in Belize».
Bel randagio, Chico. Cammina con passo svelto e si concede mezzo sigaro al giorno, che aspira con estrema lentezza. Ha la battuta sempre pronta, una “pregunta” per tutti e una regola ferrea: «Quando sei in posti come questo, mai bere prima del tramonto».
Una sera siamo in uno dei pochi bar di Santa Maria, Isola di Sal, Capoverde. Butta giù un sorso di birra, poggia la bottiglia sul tavolo e mi guarda di sottecchi.
«Certe cose le vivi solo se viaggi» dice di punto in bianco. «Magari noi non ci si vede più. Magari ci si vede tra dieci anni. Importa niente. Qualcosa ho dato a te, qualcosa hai dato tu a me. Secondo te è poco?».
Poi, non ricordo come, sotto quella tenda a pochi metri dalla battigia avvolta dalla sera, prendiamo a parlare di Sartre. Scantoniamo per quelle vie traverse e invisibili che solo la conversazione a ruota libera, incoraggiata da qualche birra di troppo, sa far imboccare e ci troviamo a discorrere di Hemingway e Marquez. Di Cuba e dell’America Latina.
«Il massimo è viaggiare lungo la linea dell’equatore» sentenzia Chico alla fine riprendendo la bottiglietta. «Son quelli i paesi che ti lasciano qualcosa addosso. Come una polvere che non ti scrolli più. Come questa strada…» dice indicando col collo della bottiglia la via non asfaltata a pochi metri da noi. «Ecco, prendi questa strada impolverata, questi posti infami… Questi cani senza padrone che passano ogni minuto».
Alzo lo sguardo, due bastardini di media taglia si stanno azzuffando a un paio di metri da noi. Sollevano nugoli terra, ringhiano e si mordono la coda girando in tondo.
Non c’è niente di speciale in quello che ha detto. Eppure, a guardare la strada impolverata sotto i miei piedi, mi rendo conto che non avrebbe potuto trasmettermi niente di più profondo. Qualcosa – la strada, i cani, i posti infami come questo… qualcosa te la lasciano davvero. Come una ferita senza dolore. Una cicatrice. Un ricordo al quale ti affezioni col tempo.
E così, questo tipo strano con la testa rasata e il volto curtado dal sole parla di Sartre e di Cuba, di Hemingway e della linea dell’equatore e un momento dopo, a modo suo, ferma una bella cameriera mulatta.
«Una pregunta señorita… Ha per caso visto entrare un uomo sui sessant’anni? Alto, grosso, barba folta, bianca. Poco fa le ho visto servire un Daiquiri…».
«Estamos en el ecuator, señor» fa quella, «sòlo sirven Daiquiri, aquì».
(dicembre 2008)