«Perdio!»
E giù un pugno sulla scrivania e un’esplosione di matite e biro e pennarelli e carta di giornale e carta d’appunti e foglietti e graffette e biglietti da visita e blocchetti scarabocchiati… Un ventaglio che s’allarga a terra, in mezzo alla polvere del seminato alla veneziana.
«Perdio!»
E giù un altro sganone, che la scrivania è un boato, un urlo di dolore legnoso e tutte crepe e scricchiolii di viti che s’allentano. E di nuovo quel ventaglio che s’apre a terra e un vento di rabbia in carta d’appunti.
Aveva le vene del collo che parevano canali d’irrigazione, tanto eran gonfie e rosse. Gli occhi come due puntine di quelle che eran piombate a terra al secondo picchione sulla scrivania liscia. Sudava e sbraitava e mandava grida da maiale sgozzato.
«Digli di richiamare domani!» e giù un altro colpo. Solo che stavolta il ventaglio fu meno coreografico: mica c’era più tutta ‘sta roba da far volare d’intorno dopo tre piallate a quel modo.
«Di’ che non ci sono… c’è nessuno, c’è più nessuno… digli, digli… dì di andare a farsi fottere… A FARSI FOTTERE! Ho mica tempo io!»
Era un samoano sul punto di eruttare collera. Un sudore unico. Una massa d’incazzatura truce, frutto di mesi e anni di rabbia mandata giù a forza, con le dita in gola, ricacciata giù a manate – un deglutire unico di fiele puro.
Ma stavolta no, mica ce la fece più a turarsi il naso. Stavolta mica c’era il direttore. Era lui il direttore in quei giorni – che più alto in grado, di lì a una settimana, c’era nessuno.
Una telefonata in un momento d’intasamento del lavoro. Mica c’era stato bisogno di qualcosa di più. Una telefonata. Tanto gli bastò a dar di matto con la scazzottata alla scrivania e le urla al collaboratore dirimpetto, che a tutti i costi – non era un genio il collaboratore, si capisce – la telefonata gliela voleva passare.
«Perdio! Vada all’inferno. Anche te. Andateci tutti, già che ci siete!»
Era un peana all’ira. Un inno allo sbotto. Un poema al finimondo del nulla. Vomitava frasi incastrate la va come la va in un monologo alla Suprema Incazzatura.
Un lavoro di fino, a suo modo… di cesello, ecco. Alla sua maniera, un capolavoro della rabbia repressa cui, di tanto in tanto, aveva messo a parte i colleghi. Un poco al dì, chi per mesi chi per anni, li aveva insomma beneficiati tutti di tanto fulgore inutilmente distruttivo.
Tirò giù un altro paio di santi, poi sembrò placarsi un momento. Si fece silenzioso, torvo. Faceva più paura così, a dir vero.
Si alzò, si terse il sudore dalla fronte. S’aggiustò la camicia tutta stazzonata e fradicia e si tirò su le braghe.
«Di’ di richiamare tra mezz’ora» disse calmo al collaboratore ottuso. «Esco».
E come un Papa infilò la porta.
Lo si rivide di lì a mezz’ora, mentre il telefono in faccia al suo prendeva a suonare di nuovo.
«Pronto» fece calmo come un monaco, prendendo la telefonata che trenta minuti prima gli aveva cavato un filotto di perdio da far impallidire una ciurma di farabutti.
Gli era passata. Finita. Camminava, è vero, su quello che era stato il corredo della sua scrivania, ma gli era passata. Era fatto così, d’altra parte. Un vulcano senza lava, un boione sdentato. Un satiro senza sesso. Un toro a fine corrida.
E sbraitava e urlava e mugghiava e quasi si poteva dir che barriva, e da far paura, eh. Ma mica esplodeva. No, non ci dava il botto. Non esplodeva mai. Teneva tutto dentro come si custodisce un segreto.
Tanto che fu quello, son pronto a giurarlo, a condurlo alla tomba di lì a un mese.
Un mese dalla scenata della telefonata.
(giugno 2007)