Dark Light

Sciamano a frotte, silenziosi e brulicanti come scarafaggi nella notte. È gente strana, i cinesi. Qui a Shanghai neanche sembrano accorgersi della sera che avanza ritagliando le sagome dei grattacieli in un cielo di piombo, sotto una pioggia fine. Noi si esce in quattro dal museo: io, mio fratello, Marisa e la piccola Ilaria. Piccola perché minuta, Ilaria… occhio e croce a trenta ci arriva dritta dritta.

Dall’Urban Planning Center all’hotel ci saranno sì e no sette minuti a piedi, ma si decide per un taxi – che di acqua ne abbiamo già presa anche troppa. Sfiliamo silenziosi lungo la strada a caccia di un giallo libero – il taxi, non solo il conducente. Impresa non di poco conto in queste condizioni e a quest’ora, 19.30, più o meno. L’appuntamento col Gin Tonic nella hall è per le 20.30. Stiamo larghi. Ci sta una doccia veloce e un cambio d’abito.

È che non abbiamo fatto i conti con lui. Taxi Driver. Così lo inquadro mentalmente come lo vedo fermarsi a lambire il marciapiede. Lo guardo mentre salgo: muso scavato, occhio spento, aria assente. Quarant’anni e nessuna domanda, altro che la rabbia del giovane De Niro.

Ognimodo, davanti io, dietro, pigiati come casse in una stiva, Marisa, Pippo e Ilaria. Allungo il biglietto stropicciato dell’albergo e Taxi Driver entra nel primo stadio del panico. Scruta il foglietto sotto la luce di cortesia. Si contorce come un’anaconda braccata voltando il biglietto un paio di volte senza aprire bocca. Lo considera con distacco, poi lo ruota in senso antiorario.

Azzardo una stima delle sue diottrie mancanti, ma lascio perdere non appena mi ricordo che dovrà guidare nella sera in mezzo a un fiume di auto. Preferisco non sapere e lo seguo nelle sue evoluzioni finché, di scatto, apre la portiera, scende, chiude la portiera e si piazza in strada davanti ai fari. Cerca di leggere l’indirizzo sul biglietto. Lo guardiamo ammutoliti. Poi ci guardiamo e il dubbio comincia a insinuarsi nelle nostre menti stanche. L’albergo è a tre minuti d’auto, basterebbe fare inversione – manovra non solo prevista dal codice della strada cinese, ma a occhio e croce addirittura incoraggiata, almeno a giudicare da come guidano da queste parti –, imboccare la seconda a destra e tirare dritto per trecento metri per raggiungere lo spiazzo davanti alla hall.

Talmente lineare che mentre guardo il reietto davanti ai fari dell’auto mi sfiora l’idea di passare al lato guida e fare da me.

Lascio perdere. Potrebbe aversene a male. L’uomo risale. E’ una sfinge.

Da dietro, Ilaria domanda: “Ok?”, le uniche sillabe d’uso occidentale che i tassisti cinesi sembrano afferrare. Il tizio annuisce con un grugnito, spara dentro la prima con gesto rabbioso e parte deciso. In direzione opposta rispetto all’albergo.

«Farà il giro attorno al Museo, vedrete», butto lì per rassicurare, anche se pare chiaro che se l’uomo la sta pigliando larga, si sta indubbiamente dando da fare. Non a caso, una manciata di minuti più tardi, Shanghai comincia a disvelare panorami inediti, forme intagliate nella cappa plumbea a noi del tutto ignote. Partono le prime domande, i primi commenti sulle possibili condizioni mentali del conducente.

Il dramma ci appare terribilmente chiaro poco dopo, quando l’uomo affronta sicuro la sopraelevata. E’ evidente – e credo lo sia anche a lui stesso – che non sa per un cazzo dove stia andando. Un po’ come le frotte di scarafaggi per le strade, in una corsa sfrenata senza alcuna meta apparente.

Tocca a me, che cinico sono per natura, dar voce al sospetto: «Questo non sa, ma la piglia larga per dare una botta al tassametro e decidersi». Da dietro, Ilaria, minuta come una geisha giapponese ma gagliarda di spirito, bussa al vetro alle spalle di Taxi Driver. In cinese – ricordo bene il tono aggressivo, improbabile su una figura così gentile – chiede all’uomo se abbia una minima idea di dove stia andando.

Taxi Driver fa spallucce. E’ un duro. Ilaria ripete la domanda e il tono, stavolta, è furente. Una piccola guerriera Ninja incazzata.

L’amico la considera degna di una risposta. Un piccolo capolavoro d’arte diplomatica: «E’ l’unica strada che conosco» grugnisce piatto. I risvolti surreali della situazione e delle sue possibili evoluzioni sono lampanti. È che il cinese di Ilaria, a Shanghai da tre mesi, non va oltre le domande salvavita. Per una replica servirebbero altre lezioni. Comprensibile.

Ma la ragazza è sveglia e sa cosa fare in casi come questo, evidentemente meno rari di quanto l’assurdità del frangente suggerirebbe. La piccola Ninja agguanta il cellulare e chiama l’albergo. Qui può sfruttare il suo inglese per descrivere la trama del capolavoro beckettiano nel quale, incolpevoli, siamo stati catapultati.

Dall’albergo le chiedono di passar loro il tassista, sicché la ragazza mi allunga il telefono intimandomi di passarlo al pazzo al volante.

Eseguo, o meglio, tento di eseguire, ma l’uomo non collabora. Con l’ennesimo grugnito – ma ‘sto stronzo parla anche o si ferma al gorgoglìo troglodita? – rifiuta la telefonata. Poco ci manca che si giri trasfigurandosi in De Niro e sibilando: «Ce l’hai con me? Dico, ce l’hai con me?». Rivedo la scena del film pari pari, sembra di essere al cinema, immersi nella New York sporca del film. Ma siamo a Shanghai e l’artista al volante più che grugniti non sa produrre.

Metodo Stanislavskij. Riletto e interpretato a modo suo.

Fuori scorre la sera umida, la strada, palazzi mai visti. Scorrono i minuti e cresce la nostra inquietudine. La periferia di Shanghai ci assorbe in un abbraccio tetro. Comincio a domandarmi se Pechino sia ancora molto distante. Avanti così e ci siamo prima che faccia ora per il Gin Tonic. Mentre comincio a convincermene seriamente, la Ninja, s’incazza e fa partire la seconda telefonata. Stavolta siamo tutti più determinati e quando mi passa il telefono quasi lo infilo a forza nell’orecchio del tassista.

Dell’ammutinamento in corso pare accorgersene anche Taxi Driver. Agguanta il cellulare con la destra e se lo tiene premuto all’orecchio. Lo sentiamo articolare suoni gutturali in tono stizzito in risposta alle domande. Pare chiaro, a questo punto, che anche il mentecatto deve aver ammesso a sé stesso anzitutto, all’albergo poi, di non capirci più niente, di essersi perso e di aver bisogno d’indicazioni per ritrovare la strada, sé stesso e un senso a tutto questo. O forse ha solo capito che più di così non può tirare la corda.

Poco importa, chiusa la conversazione con un agglomerato di consonanti tipo “glbrrtssrblrrrr”, restituisce con gesto sdegnato il telefono, si sposta sulla corsia di sinistra, scende dalla sopraelevata e si blocca a un incrocio.

“T’hanno fatto il culo, eh?”, penso mentre vedo l’uomo fermare il tassametro. Buona cosa, dal momento che l’importo nel frattempo era salito come il prezzo dell’oro in Borsa in giornate ruggenti.

«Qui in Cina – spiega una voce fuori campo, stile documentario –, se un cliente non è soddisfatto del servizio, ha il diritto di non pagare il tassista». Mi accorgo che in realtà è Ilaria a parlare. «Ad esempio se ci ha messo troppo tempo o se ha sbagliato strada o se è stato scortese» conclude.

Bingo. Taxi Driver le ha infilate tutte: ci sta mettendo un’era geologica a portarci da un punto a un altro, ha sbagliato qualsiasi strada, comprese quelle che non ha preso, e quanto a gentilezza è stato peggio d’un cane idrofobo. La faccenda del tassametro fermo è più che un’ammissione di colpevolezza: è una confessione spontanea firmata, controfirmata e vidimata.

“Hai fatto la cazzata, eh”, mi viene da dirgli mentre lo guardo esibirsi in una demenziale inversione a U subito dopo aver superato l’incrocio. Corretta la traiettoria al suo proiettile, l’uomo affonda il piede sull’acceleratore e parte come un invasato riportandoci verso la parte di Shanghai conosciuta anche al popolo cinese.

Commenti carichi di sollievo filtrano dal sedile posteriore mentre il folle si beve la sopraelevata in direzione contraria rispetto alla prima metà dell’allucinante viaggio. È in quel preciso istante che realizzo che non avrei pagato un fottuto Yen al balordo indipendentemente dalla convenzione non scritta sulla soddisfazione del cliente.

Piuttosto, le carceri cinesi.

Il mio proposito bellicoso è tuttavia destinato a rivelarsi inutile. Con la coda dell’occhio mi accorgo che il tassametro è azzerato. Evidentemente, il fenomeno alla guida deve averlo furtivamente mandato a zero poco dopo averlo fermato, mentre ero distratto dalla spiegazione di Ilaria. Gli scocco un’occhiata. Sembra uno dei soldati dell’esercito di pietra. Gli occhi strizzati, le labbra serrate, le braccia tese e le mani ben piantate sul volante.

È una scultura di rabbia repressa scolpita nel granito della vergogna.

Non posso vedere il suo piede, ma a giudicare dall’andatura in costante accelerazione dell’auto, in quel momento dev’essere l’unica parte del suo corpo accarezzata dal soffio della vita. Il taxi sfreccia nella notte come un proiettile, con la sola differenza che – adesso – è ragionevolmente possibile considerare l’auto diretta in un punto preciso della metropoli.

Oltre i finestrini i palazzi sfilano come le immagini accelerate delle vecchie comiche in bianco e nero. L’uomo ha occupato manu militari la corsia di sorpasso e non sembra aver la minima intenzione di mollarla da qui all’eternità.

“Figlio d’un cane”, penso, “che credi, di farci scendere al volo?”. Con lo sguardo cerco il tachimetro, ma non mi riesce di leggere la velocità del 747 sul quale stiamo viaggiando. Lo guardo con astio: “Questo s’è messo in testa di superare la velocità della luce per farci tornare indietro nel tempo e cancellare la figura meschina che ha fatto fare a tutto il popolo tassista cinese”.

Mentre così congetturo, ecco lo Shuttle irrompere in un boato di luci. Sono le insegne delle vie del centro che accolgono il nostro ritorno alla vita reale. Rapido scarto di corsia, decelerata da rientro in orbita e brusca inchiodata vibrante su asfalto lucido. Stimo in centocinquanta metri il tratto di frenata percorso dal Dragster a pagamento e scorgo l’insegna dell’hotel oltre il finestrino.

Atterrati.

Nessuno ha la forza di commentare. Usciamo in silenzio e senza salutare il delinquente al volante guadagniamo il marciapiede. Ancora frastornati imbocchiamo l’ampio spiazzo, diretti alla grande porta vetrata girevole. Lascio passare gli altri e sosto a pochi passi dall’ingresso.

Voglio guardarlo un’ultima volta. Taxi Driver è là – il motore acceso, lo sguardo vitreo perso nell’infinito davanti a sé. Lo sento ingranare con rabbia la prima e dare un furioso colpo d’acceleratore. È un attimo: senza mettere la freccia si rituffa nel traffico di Shanghai e sfreccia diritto lasciandosi inghiottire dalla notte.

Riprende a piovere fitto. Alzo la testa al cielo nero e raggiungo gli altri pensando a cosa sarebbe stato di quel film se l’avessero girato da queste parti. Probabilmente l’avrebbero stroncato.

In mezzo a gente come questa anche un duro come De Niro passerebbe per una mammoletta.

(ottobre 2012)

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