Arriviamo a Tijuana dopo un fine settimana con rissa in una bodega di Ensenada. C’è mancato poco che quegli americani sbronzi, pigliandosela coi cholos, facessero finire anche noi in un bilocale con finestrella barrata a spese dello stato.
In tutto, la strada da Ensenada al confine non è molta. Un centinaio di chilometri di piccoli pueblos e pianori aridi affacciati sul Pacifico.
Ma siamo stravolti. Ci trasciniamo sulle spalle due settimane di viaggio lungo la Baja e tonnellate di pensieri lambiti dalla patina di polvere del Messico.
In più è primo pomeriggio, il sole è allo Zenit e nemmeno all’inferno fa così caldo. Sono pronto a giurarci.
Giriamo per un’ora su e giù e attorno Avenida de la Revolucion, la via principale di quel puttanaio a cielo aperto che è Tijuana. Cerchiamo un albergo fantasma segnato su una guida sgualcita.
Primo avvistamento cinque minuti dopo l’ingresso nel carnaio al confine con San Diego. Una donna sui trenta, completamente nuda, corre scomposta per la via. Io e Ste ci guardiamo. Lui alza il mento, io scrollo le spalle.
Bienvenido.
Procediamo. Dopo quasi un’ora nel traffico demenziale, non abbiamo più l’ombra di un neurone attivo. Abbiamo perso tutto: la calma, la sicurezza, la fede. La dignità e il rispetto per noi stessi e per gli altri.
Ste ha già chiamato in causa i santi più volte e nel complesso siamo poco più che automi dalla facile imprecazione a bordo di una Dodge bianca sfumata di sabbia.
In una delle duecentomila traverse imboccate girando intorno alla maledetta Avenida scorgo l’insegna di un hotel. Sembra decente. Non ha i vetri sfondati e – particolare qui non di poco conto – non mostra fori da proiettile. Decido che è nostro.
Ripercorriamo l’Avenida e dopo un paio di tentativi riesco a far imboccare a Ste la traversa giusta. È che il ragazzo è cotto, non compriende. Anche se sugli ultimi duecento chilometri, centosettanta li ho guidati io, a lui è toccata la parte peggiore. Glielo riconosco senza dirglielo. Gli sto vicino. Rido alle sue imprecazioni e porto pazienza.
Al terzo tentativo riusciamo a fermarci davanti all’hotel. Nessun segno di proiettile nemmeno alla reception. Bene. Scendo, batto i vestiti per levarmi la polvere. Tampono il sudore sulla fronte. Entro per chiedere una camera doppia. Tre notti.
C’è. Spero anche questa senza fori da proiettile, anche se a questo punto non darei peso alla cosa e la prenderei ugualmente. Bueno. Meno di venti dollari a cranio per notte.
Compilo il voucher col proprietario che ci scruta da dietro il bancone e infilo la mano in tasca, rendendomi conto di aver lasciato i dollari nel bagagliaio. Stessa cosa per Ste, che si avvia in silenzio verso la Dodge. Lo raggiungo dopo aver rassicurato il messicano.
L’imprevisto.
Ste apre il bagagliaio. Entrambi preleviamo. Ste chiude valigia e bagagliaio. Con le chiavi della Dodge dentro il bagagliaio.
Riassumendo: la camera c’è, i soldi pure, la chiave della Dodge no. La strada comincia a sfumare. I colori dei palazzi sbiadiscono fondendosi nel grigio. Gli oggetti si allontanano. Ste si dissolve sullo sfondo. Una scheggia di panico si insinua nel suo sguardo.
Fottuti.
Mi scuoto dal torpore. Lascio l’hermano accanto all’auto e mi incammino verso la reception indossando la migliore delle mie maschere nonsembramanonsonoscemo. Varco l’ingresso con piglio deciso. Tratteggio la situazione. Calco la mano sulla colpevolezza del mio amigo – «È stanco, tocca capirlo».
Mi sento meschino, ma un capro espiatorio serve.
L’uomo, piccolo, calvo e sudaticcio nella sua camicia turchese, mi studia con aria interrogativa.
«La llave esta nel coche», dico sforzandomi d’usare quel poco di spagnolo che conosco e sbagliando certamente maschile, femminile, plurale, singolare, accento e inflessione.
Il messicano mi fissa come se avesse a che fare con un drogato capitato lì in mutande.
È un attimo. Registro il suo gesto con lucida consapevolezza. Ritrae lievemente la mano sul bancone. È la mano nella quale stringe la chiave della camera. Il dubbio si è insinuato nella sua testa messicana.
«El coche es serrado» aggiungo cercando di dare una cornice al quadro. Oddio, non che qualcosa come “la chiave è in macchina, la macchina è chiusa” dica granché. A lui interessa il dinero, ma quel suo modo di rafforzare un’aria già emblematicamente interrogativa mi indispettisce.
Nel frattempo, con la coda dell’occhio avverto l’ingresso di Ste in reception. Mi volto. Lo guardo. Mi giro verso il messicano. Fendendo l’aria col taglio delle mani all’altezza dello sterno, sospiro: «Fottuti».
Riprendo la situazione per la coda e aggancio il messicano con l’inglese.
«We’ve got a problem» premetto. «The key of the car is in the car and the car is closed. My friend closed the car with the key inside. We can’t open the car».
«Più di così, eccazzo!» aggiungo in italiano a sottolineare che meglio non te la potevo dipingere, la situazione.
Finalmente l’amigo compriende. Sospira. Chiede se la macchina è nostra. Come se cambiasse qualcosa.
«Sì, ci abbiamo solcato l’Atlantico per doppiare il passaggio di Drake e risalire il Pacifico fin qui, con quella Dodge. E tutto per finire in questo buco a farci dare dei deficienti da te» mormoro a denti stretti.
«No, it’s rented from Hertz. Can you call them and see if they can do something?» rispondo infine alzando il tono, stanco di questo dialogo surreale.
L’amigo rilancia. Dice che c’è questo meccanico di fiducia – la sua – che apre le macchine agli stronzi come noi che le chiudono con dentro le chiavi. Informo Ste e chiedo quanto ci costerà lo scherzetto. Ste mi guarda con occhi vacui.
Il messicano non mi degna di una risposta. Agguanta il telefono. Digita un numero. Parla fitto. Non afferro una frase neanche a pagarla. Mette giù. Dice che l’altro ci apre la Dodge per trenta dollari. Allarga un sorriso. Tradotto: “Ve la cavate pure con poco, idioti”.
Sta bene, annuisco. Alternative non ce ne sono. «Sta arrivando» dice il tizio per poi richiudersi nel suo enigmatico silenzio.
Decidiamo di aspettare fuori, nel piccolo cortile dove mi accendo una sigaretta e dove Ste, che di sigarette ne fumerà sì e no sei in un anno, me ne chiede una.
La situazione, già.
Passano venti minuti. Del meccanico neanche l’ombra. Rientro in reception. Chiedo notizie. Il messicano mi guarda con l’aria di chi ha appena rimosso un brutto ricordo. Sbuffa. Riprende la cornetta. Poco dopo l’abbassa e mi fissa. L’immagine mi evoca il magistrale taglio d’occhi di Sergio Leone.
«Sta arrivando» dice dopo qualche secondo di silenzio gravido di fastidio.
Altre sigarette si consumano velocemente davanti all’albergo.
Venticinque minuti più tardi, una Golf dorata anni ottanta, impolverata e con coreografiche pennellate di ruggine, imbocca la traversa come fosse in gara a Indianapolis. Affronta decisa la curva e inchioda con uno stridìo di freni davanti alla porta della reception.
Ste mi guarda. «Siamo in buone mani» commenta a denti stretti.
Almeno gli è tornata l’ironia.
Scende un cholo giovane. E’ alto, magro. Ha i capelli corti, la faccia ossuta e i modi a scatto. Un cocainomane. Sono pronto a giocarmici la Dodge. Tanto non è mia.
Il segaligno allunga la testa in reception. Chiede donde estas l’auto dei due cretini. Il messicano mi scocca uno sguardo interrogativo. Pare Tuco, il brutto de “Il buono, il brutto, il cattivo“.
«La Dodge bianca. Là avanti» rispondo indicando col dito, notando che il tecnico non ha perso tempo e ha estratto l’arnese da lavoro dalla Golf. Una barra di metallo leggero sagomata in fondo. Roba da ladri.
Infila la lama nella portiera, armeggia per due secondi e la Dodge schiude il suo cuore al meccanico. Che se ne sta lì senza fare una piega aspettandosi di vedere le chiavi inserite nel quadro.
«Stanno nel bagagliaio» lo informo con tono saputo, come a dire: «Così ero capace anch’io».
Lui non si scompone, si infila in macchina e abbassa i sedili posteriori. Ste fa altrettanto dalla parte opposta e mezzo minuto dopo se ne esce con le chiavi.
Le maledette chiavi.
Allungo trenta dollari con sorriso di circostanza al meccanico. Ne regalo uno – di sorriso, s’intende – anche al tizio della reception. Comunico che ora è tutto a posto, può anche smettere di considerarci due deficienti. La Dodge è nuovamente nostra, ma non la considero. Resto ad osservare il meccanico. Intasca i dollari, sale sulla Golf e si allontana sgommando come un invasato.
Mi restituisce l’immagine di un conquistador che, appena espugnato un villaggio Maya, decide di partire finché c’è luce per farsene un secondo prima di cena.
Bagagli alla mano, saliamo le scale che portano in stanza. Un gradino sì e uno no chiedo a Ste dove siano le chiavi della Dodge. Un po’ scherzo. Un po’ no.
Una giovane squillo seduta all’angolo del pianerottolo ammicca. Muove il collo in direzione della stanza. Le sorrido scavalcandole le gambe. Faccio segno di no con la testa.
Mi sovviene il motivetto, quello scontato e stupido: «Welcome to Tijuana, tequila sesso e marijuana». Lo canticchio per canzonare Ste, ma lui non raccoglie. Raggiunta l’angusta camera, si abbandona sfinito all’abbraccio del letto mentre io poggio la sacca e mi piazzo davanti alla finestra.
Fissando il ballatoio oltre il vetro, proclamo con voce stentorea alle pareti della stanza – e a Ste che cerca di dormire – che giù in un bar del centro c’è un Margarita da mezzo litro che mi aspetta.
Sveglio definitivamente Ste con un «HAI CAPITO?» urlato a quattro centimetri dalla sua faccia spremuta tra i cuscini e mi infilo in doccia.
Ne esco poco dopo, mi vesto e aggiungo che non c’è tempo. Inutile stare qui e lasciarsi tormentare dai pensieri. Il centro non è lontano, tra meno di mezz’ora avrò quel Margarita.
«Ce lo siamo guadagnati» argomento, mentre Ste si assicura con uno sguardo furtivo che sul tavolino all’ingresso ci siano ancora le chiavi dell’auto.
(settembre 2008)