Dark Light

Primo – Novembre 1987 – Mistake (Errore)

– Pronto.
– Bill!
– Prego?
– Bill?
– Spiacente, nessun Bill qui.
– Oddio scusi, devo aver sbagliato numero.
Click.

Secondo – Esitazione

– Pronto.
– Bill?
– No, ha…
– Ancora?
– Sì. Vede, è lo stesso…
– Chiedo scusa, devo aver fatto…
– Capita.
Click.

Terzo – Reiterazione

– Pronto.
– Bi…
– Desolato, signora. Sempre Frank qui. Nessun Bill.
– Possibile?
– Possibilissimo. Specie se continua a fare lo stesso numero.
Zerotresettequattrocinquenovecinqueuno?
Zerotresettequattrocinquenovecinqueuno. Quello.
– Ma se fino a qualche mese fa rispondeva Bill?
– Non a questo numero.
– Be’, qualche mese. Sarà più di un anno… Comunque, il numero…
– … è il numero di Frank. Abbia pazienza, signora. Se non lo so io…
– Ma ce l’ho qui. Ecco, qui sotto gli occhi. Sull’agendina: Bill, zerotresettequattrocinquenovecinqueuno!
– Senta, io non voglio mettere in dubbio, ci mancherebbe. Il fatto è che abito qui da quindici anni, mai cambiato numero di telefono. Lo saprò qual è il mio numero, no?
– Bill: zerotresettequattrocinquenovecinqueuno. Quarta riga, sotto Benny. E io saprò leggere quattro cifre?
– È uno scherzo?
– Scherzo? Dico, ma come… Guardi, vorrà dire che ho sbagliato a digitare. Ancora, sì. Quante storie! Chiedo scusa. Non succederà più, va bene?
– Nessun problema. Mi scusi lei.
Click.

Quarto – Assuefazione

– Pronto.
– …
– Chi è Bill?
– Come dice?
– Dicevo: chi è Bill?
– Come, chi è Bill?
– Senta, è la quarta volta che fa il mio numero chiedendo di Bill. O il suo telefono è impostato male, oppure avevo ragione prima, si tratta di uno scherzo. E lei non ha altro da fare se non pescare un numero a caso dall’elenco e tartassare il disgraziato di turno. Che sarei io. Dica lei quale delle due.
– Ma nessuna delle due, accidenti! Oh, Gesù! Ci deve essere un errore… Ecco, io dico… mi sembra evidente, un errore. Ma come si permette?
– Va bene, va bene, non si scaldi. Chiedo scusa. Sa, alle volte uno…
– Alle volte uno?
– Insomma, questo Bill?
– Bill niente. Facciamo così, cancello il numero. La sente la penna sulla carta?
– Ho sentito grattare, sì.
– Bene. Ci ho tirato sopra due righe. Contento? Vorrà dire che ha cambiato numero. È un sacco che non ci sentiamo. Si sarà dimenticato di avvisarmi. La saluto.
– Un momento.
– Prego?
– Non è per fare il pignolo, ma, vede, le ho spiegato che ho questo numero da quindici anni. Mi suona strano che fino a qualche mese fa rispondesse Bill. Voglio dire, non per mettere in discussione la sua parola, ma capisce anche lei che…
– È il mio ex.
– Come?
– Il mio ex.
– Chi, Bill?
– Già.
– Ex cosa?
– Ex!
– Ex marito, ex amico, ex compagno di scuola… Ex autista. C’è un mondo intero dietro la parola ex. Uno non ci pensa, ma… Non vorrà farmi tirare a indovinare, spero.
– E lei come ha detto che si chiama?
– Frank. Ma torniamo a Bill.
– Non le pare di essere troppo curioso, Frank?
– Vediamo… Mi telefona quattro volte in cinque minuti chiedendo di Bill, poi mette in discussione il fatto che il numero che da quindici anni sta sull’elenco sotto al mio nome sia il mio. Mi pare che me lo merito di sapere chi è Bill. Lei non crede?

Una lunga pausa.

– Marito. Ex marito. Contento?
– Contento… Lo cerca ancora… Che posso dirle? Che mi spiace?
– Cose che capitano.
– Ah, sì. Vede, anch’io…
– Oh, per carità! Non sono fatti miei…
– Ah, se è per quello, nemmeno miei, ormai. Non più.

La donna se ne uscì con una risata trattenuta.

– Certo che lei è un bel tipo, Frank.
– Trova?
– Volevo dire…
– Ho capito quello che voleva dire. Intendevo, trova davvero che io sia un bel tipo?
– Be’… Se ne sta qua a parlare con una sconosciuta, una che l’ha già disturbata tre volte. Per carità, sempre per errore, ma…
– Quattro.
– Come dice?
– Quattro volte.
– Sì, sì, quattro. In ogni caso, ecco, siamo qui a parlare tra sconosciuti e… Insomma, a lei non pare una cosa assurda?
– Forse.
– Forse?
– Senta, facciamo così. Lei adesso mi dice come si chiama, così io…
– Ecco, vede? Vede che avevo ragione? Lei è proprio un bel tipo.
– Insomma, come si chiama non me lo vuole dire?
– Oh, Gesù. Laura. Mi chiamo Laura. Soddisfatto?
– Laura… Senta, Laura…
– No, mi perdoni, ma adesso riattacchiamo. Giuro che non la disturbo più, Bill…
– Frank.
– Sì, scusi. Frank. Mi perdoni, è tutto così assu…
– Lei cosa ne dice se la invito a cena, Laura?

Quinto – Complicazione

La donna rimase in silenzio. La domanda, così diretta e imprevedibile, l’aveva lasciata inebetita. Si sentiva strana, scossa. La proposta era stata così sfacciata e inattesa da averle trasmesso il sapore della frusta. Il punto era che le era piaciuto. Dunque non era solo sorpresa, la sua. C’era dell’altro. C’era quella vitale sensazione che le sembrava, di colpo, aver ricucito l’abisso di noia che le si era aperto dentro in tutti quei mesi.

Si sentiva lusingata. Solo che non aveva nessuna intenzione di ammetterlo. Non ancora, perlomeno.

Con voce maliziosa chiese: – E cosa le dice che potrei accettare una proposta così assurda?
– Be’, il fatto che non si sia messa a ridere, ad esempio. Ma anche il fatto che non abbia riattaccato…

Lei scoppiò a ridere. A Frank piacque quella risata. E poi, pensò, Laura aveva proprio una gran bella voce. Una voce giovanile. Calda e seducente.

– Avevo ragione – disse lei. – È proprio un bel tipo.
– Devo prenderlo come un sì?
– Lei corre sempre a questo modo, Frank? – chiese Laura con tono complice.
– Oh, niente affatto. Solo con chi mi chiama Bill.

Laura soffocò una risata. Frank non disse niente, ma sorrise. Sapeva di essere, letteralmente, appeso al filo del telefono. Per un puro caso stava corteggiando una sconosciuta, una donna che avrebbe potuto perdere da un momento all’altro. Sarebbe bastato che lei riagganciasse per non richiamare più e l’avrebbe persa per sempre. Ma quella situazione di instabilità lo intrigava. Era il fascino del vuoto. E lui ne era attratto perché lo stava facendo sentire vivo. Così non volle fare passi indietro. Sarebbe bastato chiedere a Laura il numero di telefono, il cognome. L’indirizzo. Ma preferiva stare sull’orlo del baratro. Un passo indietro e la magia sarebbe sparita.

– È tanto che siete separati?
– Io e Bill? Più di tre anni. Non lo sento da un anno. Ma so che lavora ancora qui e…

Si fermò. Laura non parlava mai del suo ex marito. Non lo faceva nemmeno con le amiche, figurarsi con gli sconosciuti. Eppure in quel momento sentiva che era tutto diverso. Era come parlare ad alta voce al buio. Chiedere conforto alla notte.

Raccontò di quel matrimonio finito e dei cocci che in tre anni non era ancora riuscita a mettere assieme. Confessò che all’inizio si era sentita inutile, persa – nuda di fronte al suo, al loro fallimento. Parlò di quei primi mesi trascorsi come annebbiata, anestetizzata.

Frank l’ascoltava in silenzio. Di tanto in tanto insinuava un «Ah» e annuiva, quasi che lei potesse vederlo.

Laura spiegò come il lavoro l’aveva, in un certo senso, salvata, accogliendola in un abbraccio di noia e routine. Parlava e si sentiva ancora forte e brillante. Lontana da quell’uomo che le aveva cancellato il futuro – o, quantomeno, che l’aveva costretta a ripensarlo in un modo del tutto nuovo.

Disse che quel pomeriggio aveva cercato Bill per ucciderne il ricordo.

– Vale a dire? – chiese Frank.
– Vale a dire che non pensavo a lui da quasi un anno. Se non che, un paio di mesi fa, ho traslocato. E tra gli scatoloni in cantina cosa salta fuori?
– Roba del suo ex marito.
– Proprio così. Roba di Bill.

Allora Laura aveva messo da parte quelle cose di scarso valore che in pochi minuti avevano messo in discussione un anno intero. Le aveva separate, ripromettendosi di restituirle all’ex marito e ucciderne il ricordo una volta per tutte.

– Ci sono voluti due mesi, ma oggi mi sono decisa. Prendo l’agenda, anche se il numero credo di ricordarlo a memoria, e…
– … e arrivo io – finì la frase Frank.
– Già. E ancora non me lo spiego. Non so proprio come…

Lasciò la frase a metà. Nessuno dei due parlò.

Frank si sforzò di dare un volto a Laura. Cercò di modellare un viso attorno a quella voce calda e giovanile, ma alla fine lasciò perdere.

Laura si sentiva strana. Sfinita e al tempo stesso eccitata. Non capiva cosa l’avesse spinta ad aprirsi fino a quel punto con uno sconosciuto.

Dopo qualche minuto, Frank se ne uscì diretto: – Senta, lo conosce il ristorante La Villa?

Sesto – Capitolazione

Laura sorrise nervosa. Attese un po’ prima di rispondere.

– Sì, credo di sì. È quello… Massì, ho capito.

Non c’era mai stata, ma lo conosceva. Il ristorante era appena fuori città. Ne aveva sentito parlare bene.

– Ci verrebbe stasera… diciamo alle nove?

Frank fissava il vuoto. Gli piaceva il buio.

– Le capita spesso? – rispose Laura.
– Cosa?
– Abbordare sconosciute invitandole subito a cena.
– In effetti no. Ma nemmeno succede spesso che mi chiamino quattro o cinque volte di fila per raccontarmi la loro vita.

Laura allargò un sorriso e non rispose.

Frank era sicuro di aver fatto centro. – Alle nove. Che ne dice?
– Dico che lei resta un bel tipo, ma io non sono matta.
– E perché mai dovrebbe essere matta?
– Lei crede davvero che potrei accettare un invito così… Così strano?
– Certo che no. Un invito strano no. Ma una proposta assurda sì.

Eccome, se gli piaceva il baratro. Era l’uomo che avrebbe voluto essere: sicuro e spigliato, un poco incosciente. Di quell’incoscienza che non guasta mai con le donne.

Rimase ad ascoltare il respiro di Laura nel ricevitore per qualche secondo, poi parlò: – Facciamo così: io l’aspetto là per le nove. C’è un angolo bar appena entrati nel ristorante. Sarò là per le nove. Se entro un’ora non sarà arrivata, capirò. Nessun problema, glielo giuro su Bill.

Laura si morse le labbra. Questa volta non voleva lasciargli il vantaggio. Certo che questo Frank non difettava di iniziativa, considerò.

– Allora? Che ne dice? Mi sembra una proposta onesta.
– Come no. Assurda ma onesta.
– Vede? Niente di strano, allora.
– Senta, Frank, non so. A me sembra una cosa folle.
– Lo spero proprio. Sono le migliori.
– Non a quarant’anni.
– E chi lo dice?
– L’esperienza. Ecco chi lo dice.
– Si sbaglia, Laura. Semmai è il contrario.
– E perché mai?
– Quand’è stata l’ultima volta che ha fatto qualcosa di folle?
– Matrimonio a parte?
– Matrimonio a parte.
– Oh, non saprei. A vent’anni, credo.
– Se ne è pentita?
– No, non direi. Anzi. Mi mancano quei tempi…
– E dopo?
– Dopo cosa?
– Dopo i vent’anni.
– Be’, è diverso…
– Appunto, è diverso. L’esperienza le fa solo dire che dopo è diverso. Tutto qui.

Laura tacque. Era tutto così surreale. E piacevole. Si sentì avvampare in viso. Passò la cornetta nell’altra mano e con le dita della destra si scostò una ciocca di capelli, portandoli dietro l’orecchio.

– Alle nove – disse. – Ma non ci conti troppo, Frank.

Click.

Settimo – Preparazione

Frank terminò di asciugarsi i capelli. Si guardò allo specchio. Inclinò un poco la testa di lato e si pettinò. Si avvicinò allo specchio, serrò le labbra fino a tendere la striscia di pelle sotto il naso. Controllò che non spuntassero peli dalle narici. Una volta soddisfatto, uscì dal bagno e passò in camera da letto.

Tossicchiava e guardava di continuo l’orologio sul comodino. Si accese una sigaretta e se la fumò in camera, passeggiando avanti e indietro con indosso solo un asciugamano stretto in vita.

Ripensava alla telefonata e si stupiva di se stesso. Cosa gli era saltato in mente? Che donna era una donna che accettava una proposta del genere? Quale livello di disperazione poteva portarla a raccontare a uno sconosciuto tutto quello che Laura gli aveva confessato poche ore prima?

Eppure, quella voce… Quella prontezza di spirito, quel suo stare al gioco. Si rendeva conto che la cosa non aveva senso, ma Laura gli piaceva. E non gli importava che aspetto potesse avere – quantomeno, in quel momento non pensava affatto all’aspetto di Laura. Pensava alla voce. E quella voce lo intrigava.

Era sicuro che sarebbe venuta. Non ci conti troppo, gli aveva detto. Ma lui sapeva che quello era un sì.

Spense la sigaretta nel posacenere in sala e tornò in camera da letto. Prese una camicia pulita, una giacca sportiva e un paio di pantaloni scuri. Guardò l’orologio e iniziò a vestirsi con calma. Come ebbe finito, andò a rimirarsi nello specchio in bagno. Si stava sistemando il collo della camicia quando si ricordò dei denti. Si tolse la giacca imprecando e si diede una vigorosa lavata stando attento a non bagnare la camicia.

Dieci minuti più tardi, dopo aver dato un’altra occhiata all’orologio ed essersi specchiato per l’ultima volta, spense la luce e uscì di casa.

Ottavo – Tentazione

Laura sedeva sul divano con indosso il cappotto abbottonato. Si era passata un trucco leggero e si era raccolta i capelli in una coda morbida. Sapeva di avere un bel collo e le piaceva metterlo in mostra.

Storse le labbra. Da quanto tempo non si curava a quel modo? Da quanto non metteva scarpe col tacco alto e un vestito da sera? Un vestito sobrio, ma pur sempre da sera. Con lo spacco corto e tutto il resto.

Giocherellava nervosa col bracciale d’argento.

Si chiedeva che aspetto potesse avere Frank. Non aveva smesso di sentirsi agitata da quando aveva chiuso l’ultima telefonata. Pensò di chiamare un’amica per raccontarle tutto. Allungò la mano verso il telefono, ma la ritrasse subito.

Con un polpastrello sfiorò una a una le unghie della sinistra. Erano laccate di rosso cupo. Smaltate alla perfezione e lisce.

Si alzò di scatto e andò in cucina. Prese l’agenda da un cassetto e l’aprì facendo scorrere le prime pagine. Si fermò alla lettera B. Fissò a lungo il numero cancellato quel pomeriggio. Sotto le due righe a biro nera riusciva ancora a leggere nome e numero.

Lo lesse due volte, la seconda facendo scorrere l’indice sulla pagina. Strinse le labbra e scosse il capo. Sfogliò distrattamente l’agenda, poi la chiuse e la rimise nel cassetto. L’orologio a muro segnava le nove meno dieci.

Uscì in fretta, con la borsetta in una mano e le chiavi dell’auto nell’altra. Avvertiva il cuore martellarle nel petto e il collo diventarle bollente.

– Devo essere diventata pazza – pensava. – Del tutto pazza.

E intanto sorrideva e scuoteva la testa.

Nono – Rimuginazione

Frank fece un cenno al barman. Ordinò un altro Margarita spostando sul bancone il bicchiere vuoto. Si pinzò il labbro inferiore tra il pollice e l’indice. Guardò l’orologio. Le nove precise. Era certo che sarebbe entrata da un momento all’altro. Si sistemò il collo della camicia e si aggiustò sullo sgabello. Si voltò verso la porta d’ingresso. Stava entrando una coppia sui cinquanta. Li guardò un momento e si voltò giusto in tempo per vedersi servito il suo drink.

Era seduto da una ventina di minuti, ormai. Attraverso la porta a vetri che dava sul ristorante, a sinistra, vedeva i camerieri darsi da fare nella sala piena. Si mosse ancora sullo sgabello.

– Calmati – si disse a bassa voce.

Si accorse che la gamba sinistra stava tremando e la fermò subito. Buttò giù un sorso di Margarita. Pensò che forse, se avesse fatto alla svelta, avrebbe fatto in tempo a ordinarne un terzo per distendersi e recuperare freddezza.

Guardò ancora l’orologio, diede un’occhiata alla porta e mandò giù una lunga sorsata tenendo gli occhi fissi sul fondo del bicchiere.

Laura stava parcheggiando dall’altro lato della strada, a una decina di metri dall’ingresso del ristorante. Spense il motore. Allungò il collo per guardarsi nello specchietto. Si sfiorò i capelli e spense la luce di cortesia. Aveva il fiato corto. Si abbandonò al sedile chiudendo gli occhi.

Le nove e un quarto.

– Sapere cosa ti è saltato in testa… – pensò. – Non c’è senso. Una cosa senza senso, ecco quel che stai facendo.

Non si riconosceva più. Mai le era capitato di comportarsi a quel modo. Lei, poi. Metodica e pragmatica. Noiosa, anche.

Riaprì gli occhi. Frugò nella borsetta. Riaccese la luce e si passò il rossetto aiutandosi con il retrovisore. Rimise al suo posto il cilindretto argentato e guardò di nuovo l’ora. Si decise ad aprire lo sportello. Come mise fuori una gamba, lo sguardo le cadde sulla scarpa col tacco alto. Restò immobile, in preda al panico.

Cosa diavolo stai facendo?

Ritrasse di scatto la gamba e si chiuse in macchina, afferrando il volante con tutte e due le mani. Strinse forte per qualche secondo, poi allentò la presa. Inserì la chiave e accese il motore. Accese i fari, ingranò la marcia e di nuovo si bloccò. Fissava la strada. C’erano solo due lampioni appena prima della svolta a destra. In fondo, la campagna buia – qualche casa sparsa qua e là, sterrate e campi. Avrebbe voluto scappare, lasciarsi inghiottire dalla notte. Dimenticare la sua casa, la sua vita e quella serata. Bill e tutto il resto.

Invece spense il motore, si portò una mano al cuore e fece un lungo respiro. Guardò l’ora. Le nove e quaranta.

– In fondo – pensava, – ha detto un’ora. Hai tutto il tempo. Stai qui e ti calmi. Non c’è niente di male.

Gettò un’occhiata all’entrata del ristorante attraverso il finestrino, chiuse gli occhi e rimase così a lungo. Senza pensare, ascoltando soltanto il suo respiro che rallentava.

Frank si allungò sullo sgabello vuoto a destra. Si era accorto che il suo orologio si era fermato, ma da quella posizione riusciva a scorgere quello appeso al muro dietro il bancone. Le dieci e cinque minuti.

Chiamò il barman. Chiese che ore fossero. Quello si voltò a guardare l’orologio appeso al muro. Lesse l’ora ad alta voce.

– Io dico che mangia qualche minuto – disse Frank.

L’uomo lo squadrò. Diede una rapida occhiata al bicchiere del terzo Margarita che aveva servito a Frank e vide che era già vuoto.

– Lo regolo tutte le sere, signore – disse. – Ad ogni modo, aspetti un momento.

Andò alla cassa e tornò indietro.

– Ha ragione. In effetti sono le dieci e dieci. Ho controllato il display della cassa. Quello non sbaglia. Ancora un Margarita?

Frank annuì. Mantenne lo sguardo cupo e non disse niente. Il barman gli sorrise. Frank si voltò per l’ennesima volta verso la porta.

– Ci deve essere stato un imprevisto. Qualche problema, forse – si ripeteva mentre il barman tornava con il quarto Margarita, lo appoggiava con cura su un tovagliolino di carta e in silenzio ritirava il bicchiere vuoto.

Laura riaprì gli occhi, girò a metà la chiave ancora inserita nel quadro e guardò il display. Proiettava una luce verde intensa e la informava che erano le dieci passate. Era sicura che avrebbe trovato Frank ancora là. Seduto al bar come le aveva detto. Scese guardandosi attorno. La via era deserta. Fissò l’insegna del ristorante. Attraversò di corsa dopo aver chiuso la portiera.

Si fermò davanti alla porta. La luce blu dell’insegna le ritagliava la silhouette snella mentre inspirava profondamente, gli occhi chiusi, la mano destra premuta contro lo sterno.

Decimo – Mistake (Errore) 2

Dopo aver vuotato il bicchiere con due lunghe sorsate, Frank giocherellò un po’ col tovagliolino di carta. Ne strappava piccoli pezzi e li lasciava cadere per terra. Dopo qualche minuto schioccò la lingua e si alzò per prendere il portafogli. Pagò senza aprire bocca, poi sollevò lo sguardo all’orologio. Segnava le dieci e trenta e a quel punto faceva poca differenza che fosse indietro di cinque minuti o di un secolo.

Riabbassò la testa. Il barman lo fissava. Gli stava tendendo il resto. Frank prese i soldi, accennò un sorriso tirato e uscì guardandosi intorno. Si sforzò di ricordare dove diavolo avesse parcheggiato.

Lei entrò in quel momento. L’angolo bar era vuoto. Una parte di lei, in fondo, lo sperava – era la parte che l’aveva costretta in auto per tutto quel tempo, la stessa che da più di tre anni la cullava nell’apatia, difendendola dal mondo esterno.

Si diresse alla sala ristorante e fermò un cameriere sulla trentina con i capelli lucidi e tirati indietro, come fosse appena uscito di doccia.

– Il bar – disse lei. – Stasera… Vede, devo aver fatto tardi…

Fece una pausa e prese un lungo respiro. – Mi deve scusare. Volevo sapere se… Ecco, se per caso ha visto un uomo solo, questa sera. Là al bar, voglio dire…

Era agitata, il cameriere se ne accorse e le sorrise. – Aspetti – disse. – Sento il barman. Ha appena finito il turno. Un momento solo.

Laura annuì. Teneva la borsetta con entrambe le mani, le braccia distese come una scolaretta, e intanto si guardava intorno. La sala era quasi piena e dal fondo veniva un gran chiasso.

Dopo pochi minuti il tizio coi capelli lucidi le venne incontro uscendo dalla cucina. Faceva segno di no con la testa.

– Mi spiace, signora. Dice che c’è stato poco movimento stasera…

Lei sgranò gli occhi. – Forse non mi sono spiegata bene. Avevo appuntamento con un amico. Credo sia arrivato alle nove. Deve aver aspettato più di un’ora al banco e… Era solo, il barista deve averlo visto…

– Ho chiesto, signora.
– Ma forse…
– Dice che c’è stato poco movimento. Se lo ricorderebbe.

Lei strinse le labbra. L’uomo scosse la testa: – Mi spiace, signora. Dice che non ha visto nessuno bere da solo. Soltanto qualche coppia. Se lo ricorderebbe, mi creda.

Gli sorrise imbarazzata. Il cameriere ricambiò. Allargò le mani. Si scusò e la lasciò dov’era. Sola col suo imbarazzo e una rabbia profonda che le montava dentro.

Laura guardò un’ultima volta il bar vuoto. Corse alla macchina dandosi della stupida. Scrollava il capo e si malediceva, lei e la sua ingenuità.

– Stupida. Illusa e stupida – disse salendo in auto. – Solo una stupida poteva pensare… Una voce al telefono! Ma come si può essere più idioti?

Fece manovra e partì verso casa, arrabbiata e delusa.

– Bill non ti è bastato? Non ti ha insegnato niente Bill? Dio, che idee!

Prese a mordersi un labbro mentre superava un’auto ferma, passandole a pochi centimetri.

– Niente ti ha insegnato. Proprio niente! – gridò.

Undicesimo – Riparazione

In piedi davanti alla porta di casa, Frank armeggiava col mazzo di chiavi. Era intontito dall’alcol e il mazzo gli era caduto già due volte. Imprecò sottovoce avvicinandoselo al volto e facendo passare le chiavi una a una. Imprecò ancora quando ebbe tra il pollice e l’indice quella che cercava. La infilò a fatica nella serratura e aprì facendo sbattere la porta.

Gli era sembrato di aver sentito il telefono squillare. Attraversò di corsa la sala fino al tavolino accanto al divano, sollevò il ricevitore. Niente. Buttò giù con rabbia.

– Sicuro che era lei.

Si tolse la giacca, la buttò su una poltrona e andò a chiudere la porta. Avrebbe aspettato. Laura lo stava cercando e avrebbe chiamato ancora. Era stato un disguido. Forse una maledetta incomprensione.

Sollevò il braccio e guardò l’orologio, poi si ricordò che si era fermato. Lo mandò al diavolo e andò a sedersi in fondo al divano, accanto al telefono.

Appoggiò una mano sul ricevitore e controllò che fosse abbassato bene. Era solo questione di tempo. Qualche minuto, forse, ma Laura avrebbe richiamato. Chiuse gli occhi, col silenzio che gli premeva nelle orecchie e la testa che cominciava a dargli il tormento.

Laura aveva parcheggiato sotto casa. Aveva gli occhi gonfi. Spense il motore e fece per scendere, quando vide l’insegna lontana. Veniva da un bar in fondo alla via. Prese la borsetta continuando a fissare la luce blu. Ancora quella sensazione. Strizzò gli occhi, cercò di mettere a fuoco l’insegna. Si bloccò di colpo. Si portò le mani alla fronte.

– La Villa, ha detto la Villa! – gridò. – Ecco cos’era! – e le venne in mente il marciapiede e l’ingresso del ristorante e l’insegna con scritto “La Vigna” e lei, esitante, immersa nella lama di luce blu.

– Cretina! Ma come ho fatto a… Oddio che idiota!

Dava manate sul volante. Senza pensare che ormai era tardi, ripartì. Poco dopo, come realizzò che il ristorante giusto si trovava a un paio di chilometri al massimo da casa sua, le venne da ridere.

In pochi minuti fu là. Lasciò l’auto davanti all’ingresso fregandosene del divieto. Si precipitò dentro. I capelli le erano caduti in ciocche disordinate lungo le spalle e non si poteva dire che anche così non fosse bella. Si avvicinò al banco gettando un’occhiata distratta a una coppia che sedeva all’angolo. Il barista ripose il bicchiere e lo strofinaccio, le si fece vicino.

– Cerca qualcuno, signora?
– Un uomo, sì. Un… Un amico…

Si guardò attorno. – Credo d’aver fatto tardi – disse soltanto.

L’uomo la guardò ma non disse niente.

Lei appoggiò la borsetta su uno sgabello: – Vede, deve aver aspettato almeno un’ora. Dalle nove, credo…

– Un signore solo, dice?
– Sì, sì. Un uomo…

Ci fu una pausa. Realizzò solo in quel momento che non avrebbe saputo in alcun modo descrivere Frank.

– Un mio amico – disse ancora.
– Oh, be’, altro che un’ora. Ha aspettato parecchio, se è quello che dico io – disse il barman voltandosi a guardare l’orologio alla parete. – A occhio e croce saranno venti minuti che è uscito. Sui quaranta, un tizio alto. Ben vestito. Dico bene?

Laura fece per dire qualcosa, ma si fermò subito. Si sentì arrossire. – Sì – mentì a disagio. – Da quanto tempo ha detto che è uscito?

– Be’, mancano cinque minuti alle undici… Ah, non guardi quello – disse l’uomo indicando la parete. – Me l’ha fatto notare proprio il suo amico, adesso che ci penso. Va qualche minuto indietro. Ad ogni modo, non sarà più di un quarto d’ora, venti minuti. Ha pagato e se ne è andato.

La guardava sorridendo.

– L’ha fatto penare parecchio, eh?
– Come dice?
– Guardava sempre la porta, il suo amico.
– Sì?
– Mi perdoni, signora. Non volevo certo… Dicevo per aiutarla… Senta, le posso offrire qualcosa?

Lei si guardò attorno.

– Devo andare – disse. – Grazie, un’altra volta. Devo proprio scappare.

Il barman la guardò infilare la porta e sparire. Come fu uscita, l’uomo assunse un’espressione dubbiosa. Riprese il bicchiere, lo mise a posto e ne prese un altro. Cominciò a passarlo con lo strofinaccio, alzandolo di tanto in tanto controluce. Pensava ai capelli in disordine della donna e ai quattro Margarita che aveva servito al tizio in giacca rimasto seduto tutta sera là di fronte.

Dodicesimo – Risoluzione

Le strade erano deserte, Laura arrivò a casa in pochi minuti. Salì le scale di corsa cercando le chiavi nella borsetta.

In quel momento, a casa sua, Frank era ancora sveglio. Aveva acceso la luce per non addormentarsi e se ne stava sul divano con la testa che pulsava. Ogni tanto si allungava oltre il bracciolo per controllare che la cornetta fosse posata correttamente. Un paio di volte l’aveva alzata e subito riabbassata con cura.

– Laura, – pensava. – Laura e poi?

Scrollò la testa. Sbuffò. Laura un bel niente. Non sapeva un accidenti di lei. Non era venuta e non aveva chiamato. Ecco come stavano le cose. Bel fesso era stato.

Si alzò e diede un’ultima occhiata al telefono. Soffiò l’aria fuori dal naso premendosi le tempie con la punta delle dita. La testa gli faceva male davvero, ora.

Laura corse dritta in cucina. Prese l’agenda dal cassetto e se la portò in studio. La appoggiò sul tavolo e si sbottonò il cappotto con dita tremanti. Aprì l’agenda e fece scorrere poche pagine. Prese il telefono, ma la cornetta le scivolò di mano e andò a sbattere per terra. La tirò su usando il filo, ma era tutto attorcigliato e finì che mandò a terra tutto l’apparecchio cercando di districare i nodi.

Rimise il telefono sul tavolo e si portò il ricevitore all’orecchio. Il numero era ancora leggibile. Era coperto dalle due righe tirate a penna quel pomeriggio, ma si leggeva ancora bene.

Premette i tasti e rimase in attesa. Si accorse che era sudata, aveva la schiena e le ascelle fradice.

Lasciò squillare a lungo e finalmente sentì alzare dall’altra parte.

– Pronto?

Sentì l’aria entrarle di colpo in gola – fu come inghiottire il vuoto. Le venne in mente quella strana pressione che si prova alla bocca dello stomaco quando si è in aereo durante il decollo – quella sensazione che si consuma nell’attimo in cui le ruote si staccano da terra e sembra quasi di percepire la fine del mondo.

Sgranò gli occhi. Cercò di dire qualcosa, ma le uscì solo un suono aspirato.

– Pronto! – dissero ancora dall’altro capo.

Buttò giù. Le girava la testa. Guardò l’agenda. Si chinò per leggere meglio. Ricompose il numero. Sbagliò due volte e dovette ricominciare.

Questa volta risposero quasi subito: – Pronto?

Buttò giù. Avrebbe voluto urlare, prendere il telefono con tutte e due le mani e mandarlo a schiantarsi per terra, strappare in mille pezzi le pagine dell’agendina. Le dita le tremavano e il sudore le colava lungo la schiena fino a bagnarle l’orlo della gonna.

Ricompose il numero. Si impose di farlo con calma. Il più lentamente possibile. Guardava l’agenda, poi il telefono, poi di nuovo l’agenda. Premeva quei dannati tasti ripetendosi i numeri nella testa uno dopo l’altro.

Quando ebbe finito, si puntellò con il gomito sul tavolo e abbandonò il capo nella mano sinistra. Rimase ad ascoltare il segnale della linea libera e pregò dentro di sé che non fosse ancora il suo ex marito Bill a risponderle quella notte.

(luglio 2015)

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