Dark Light

«Routine. Confortevole, rassicurante routine. È di questo che parlo. Il mio lavoro, una famiglia. Magari dei figli, anche».

Fece una pausa, si portò una mano alla bocca. «Perché no. Noia. Dici bene tu. Ah, e poi una casa e le cene con gli amici, il fine settimana. Come tutti».

Si fermò di nuovo. Schioccò la lingua. «Allora, chiedo troppo?»

L’altro lo fissava con occhi severi. Se ne stava seduto sulla poltrona di fronte, le gambe accavallate e la bocca serrata. Si tormentava i peli corti della barba con il pollice e l’indice della sinistra. Non aveva alcuna intenzione di rispondere.

Virgil scosse la testa. «Accontentarmi, ecco» disse soltanto.

Lo sguardo duro dell’altro sfumò in un sorriso beffardo. Si mosse un poco sulla poltrona.

«Lo sai che non puoi avere tutto questo», disse finalmente.

Tacquero.

La sala era rischiarata da una piccola lampada da tavolo – gettava il suo cono di luce su vecchi mobili grossi e pesanti. Nessun rumore veniva dalla casa, solo lo strusciare nervoso di una scarpa sull’impiantito.

Restarono a lungo a specchiarsi negli occhi, poi Virgil sbottò: «Non posso avere tutto questo o non mi lascerai avere tutto questo?»

«Non dipende da me, lo sai».

«Balle!» gridò Virgil. «Sei tu che… Tu, ogni volta che torni da quei tuoi giri. Ogni volta mi tocca ricominciare daccapo. E come comincio a sentirmi bene, a sentirmi normale…».

Diede una manata sul bracciolo. «Cristo! È proprio quando cerco di vivere guardando un po’ più in là del mio maledetto presente, o come provo per una volta a mettere da parte il passato… Ecco che hai finito il tuo giro. Te ne torni qui e mi mandi tutto a puttane».

Si fermò di colpo. Gli sguardi si cercarono.

Virgil sapeva che era inutile perseverare. Si lasciò andare contro lo schienale e attese.

Fuori era quasi buio. Dalle tende della sala filtrava la luce dei lampioni giù in strada. Vide il bicchiere che l’uomo di fronte a lui teneva in mano. Era quasi vuoto, ma non pensò di alzarsi e prendere la bottiglia.

L’altro si fece in avanti. «Non questa volta», disse calmo. «Questa volta io non c’entro, lo sai».

Si guardò intorno, alzò il bicchiere, poi ci ripensò e lo riabbassò.

Riprese a fissarlo. «Tu hai cambiato idea all’ultimo, Virgil. Tu hai deciso che non avresti comprato quella casa. E sempre tu, Virgil, hai mandato a monte tutto. Io non ho avuto parte in tutto questo. Lo sai bene».

Virgil si maledisse per averlo portato su quel terreno. Avrebbe voluto rispondere, mandarlo all’inferno, ma a cosa sarebbe servito? I fatti erano lì a gridare la verità. Poteva trovare spiegazioni, darsi piccole giustificazioni. Forse, se fosse stato bravo davvero, avrebbe anche potuto assolversi. Ma i fatti non sarebbero comunque cambiati. Perciò si limitò a fissarlo in silenzio.

L’altro non si mosse. Gli aveva inchiodato lo sguardo addosso e i suoi occhi erano fissi e freddi. Sorrideva.

Quel maledetto aveva ragione. Mesi prima, per la prima volta in vita sua, Virgil aveva cominciato a pensare al futuro. Al suo e a quello di Sara. Si era sentito bene – sereno. Così credeva. Si erano parlati, lui e Sara, e avevano deciso. L’avrebbero fatta finita con tutto quel disordine, quelle notti rubate a casa dell’uno o dell’altra. Lui l’aveva ascoltata, l’aveva presa per i fianchi, se l’era avvicinata. Non era solo la paura di perderla. Il fatto era che quella vita non gli andava più. Quei fine settimana di assurdi traslochi, le liti e le domeniche passate da solo, con il vuoto dentro e la sensazione di trovarsi eternamente a metà di un guado.

Avevano parlato e lei era stata contenta. Le aveva letto la gioia negli occhi e Virgil si era sentito forte. Così avevano cercato casa. Avevano visitato appartamenti, qualche loft in centro e un paio di ville alle porte della città. L’avevano fatto insieme e Virgil aveva capito. Ogni tanto un pensiero lo sfiorava, turbandolo. Ma gli bastava guardare Sara, vederla contenta, e l’ombra se ne andava.

Alla fine, quella ricerca l’aveva portato a scoprire un senso dove mai aveva sperato di poterne trovarne uno. Aveva cominciato a convincersi che la vita non debba per forza morire dopo il tramonto per ricominciare, nuova e già stanca, all’alba. Quei mesi l’avevano portato a credere che non sarebbero state le notti passate alla ricerca di uno scopo a condurlo a trovare se stesso. Era il disegno condiviso a dare un senso. Gli era sembrato tutto così chiaro in quei giorni – così limpido che si era maledetto per il tempo buttato, per gli anni sprecati a darsi il tormento.

E poi c’era quella villetta appena fuori città. Non sarebbero serviti grossi lavori, giusto una mano di vernice e qualche piccolo intervento in un paio di stanze. Per il resto era perfetta, perciò l’avevano subito fermata in agenzia e la pratica era a buon punto.

Era in quei giorni che Virgil non si era sentito bene. All’inizio aveva dato la colpa alla sua ansia. Si svegliava e si sentiva estraniato. Qualcosa lo prendeva allo stomaco, lo rendeva indifferente. La sensazione durava qualche ora, poi se ne andava. Con Sara non ne parlò.

Poi ci fu il problema con l’agenzia. Qualche noia con i proprietari. Questione di tempi, dicevano. Ma più i tempi si allungavano, più Virgil cedeva all’ansia, tornava a scorgere il guado e si scopriva fermo. Non riusciva a ricordare bene, ma… C’era stato quell’incontro in agenzia, poi? Com’era finita? Com’è che un giorno aveva lasciato perdere tutto? Come aveva potuto stancarsi di Sara, lasciarla andare…

Ricordava la sua rabbia e le lacrime di lei. Cos’era successo quel giorno? Che fine avevano fatto la sua serenità, i suoi propositi?

«Certi giorni pensavo che te ne fossi andato per sempre» disse Virgil riprendendosi dai suoi pensieri e addolcendo lo sguardo. «Da una parte avevo paura. Voglio dire, quel pensiero mi spaventava. Insomma, l’idea che tu… Ma quando ci pensavo mi sentivo anche così… normale. Libero. Capisci? Libero in un modo diverso, è vero. Eppure…».

Si fermò per riflettere. «Non so, forse ho creduto di sentirmi sereno in quei giorni. Ma tu non puoi capire, vero?»

L’altro lo fissò con disprezzo. «Capire. Non ricordo di averti mai imposto la mia presenza» rispose ruvido. «Tu, piuttosto. Non sei forse tu a cercarmi quando dici di sentirti solo, troppo solo anche per uno come te? Com’è che dici? Quando la marea si abbassa e una canzone non ti basta più. Dici così, no?»

Il tono si era fatto tagliente – gli occhi erano cattivi. Virgil non rispose. L’uomo appoggiò il bicchiere sul tavolino. Congiunse le mani.

«Ma guardati: l’eterno insoddisfatto che non trova sponde nel mare della vita. Questa ti piace?»

Virgil fece per parlare, ma l’altro lo bloccò. «Sereno, dici tu. Narcotizzato, dico io. Ecco quel che sei stato in questi mesi: narcotizzato. Di’, allora: che diritto avevo io di toglierti quell’illusione? Chi credi che io sia per farti questo? Davvero mi credi così crudele? Io ho solo lasciato che quell’illusione ti si sciogliesse in gola, che te ne restasse il sapore e alla fine soltanto il ricordo».

«Se ti stai chiedendo il perché… be’ è semplice, vedi» aggiunse abbassando la voce a un sussurro malevolo. «Sapevo che sarebbe finita. Ti conosco, Virgil. Sapevo che saresti tornato a cercarmi non appena la tua marea fosse tornata bassa».

Si sentì un colpo secco, rumore di vetro in frantumi. Virgil aveva scagliato il bicchiere mandandolo a schiantarsi contro la parete. Era tutto vero, cosa avrebbe potuto obiettare? E d’altra parte, non era forse quella capacità di plasmare la nuda verità, di scavare nel profondo della consapevolezza – non era forse questo il tratto principale della personalità di quell’uomo, la cifra che gli era valsa la perversa forma d’attrazione che, dopotutto, Virgil ancora provava per lui?

Il bastardo non mentiva. Non l’aveva mai fatto.

A un certo punto era finita. I suoi propositi erano andati a farsi benedire – l’avevano mollato così come l’avevano ghermito, e lui era tornato alla sua non vita. Alla sua eterna sospensione. E a quel punto era tornato a cercarlo. Non poteva nasconderselo e tantomeno ignorarlo adesso, mentre subiva quello sguardo cattivo di trionfo. Perché, seduto in fronte a lui, l’altro aspettava solo che l’immagine prendesse forma là dove i loro sguardi si incontravano, in quel punto a metà strada tra le due poltrone.

Aspettava solo quel momento, il bastardo, per fare ciò per cui era tornato. Riprendersi quella vita a metà.

Ora che l’immagine era stata evocata, ruppe il silenzio. «Dimmi, Virgil: dov’ero io quando ti sei tirato indietro?»

Parlava a mezza voce, la testa un poco inclinata. «Dov’ero quando hai deciso che quella casa alla fine non l’avresti comprata, che non avresti condiviso un bel niente. Parlami, Virgil».

Ma Virgil non sapeva che dire. Aveva distolto lo sguardo e fissava i frammenti di vetro sparsi sul pavimento.

L’uomo alzò il mento, serrò le labbra. Decise di concedergli qualche istante.

«No, Virgil» disse poi, «la realtà è che non sei persona che condivide, tu. Tu vuoi tutto, il tutto sempre. Non è così? Dimmi, Virgil: dov’ero io quando hai deciso che quella vita, quella donna e tutti quei… Come li chiami tu? Quei progetti… Non era cosa per te. Lo sai, no? Lo sai che fine avevo fatto in quei mesi? Te lo ricordi, vero?»

Caricò l’ultima frase riportando la voce da un sussurro crudele a un parlato grave, intimidatorio. Si mosse sulla poltrona e si fece vicino. Virgil alzò la testa. Si accorse che lo guardava dritto negli occhi, come a volergli penetrare l’anima. Stava preparando il suo crescendo.

L’uomo si morse un labbro. «Per l’ultima volta, Virgil. Dov’ero quando hai deciso – bada: quando tu hai deciso di rinunciare a quella serenità?»

La domanda esplose nella stanza vuota. Virgil non ebbe la forza di rispondere. Chiuse gli occhi, pregò dentro di sé perché tutto finisse.

Ma l’uomo urlava. «E dove sono io quando hai quegli scatti d’ira? Virgil! Quando tutta quella rabbia ti scoppia dentro fino a non dormirci la notte, fino a farti… Quello! Guardati le braccia, Virgil. Le braccia! Dove sono io quando quell’odio ti cola di dosso a fiotti? Rispondi, una dannata volta!»

Virgil scuoteva la testa. Si era morso il labbro inferiore fino a farlo sanguinare. Si portò istintivamente una mano alla bocca, si passò l’indice sulle labbra. Guardò la punta del dito e si accorse del sangue.

«Basta», disse fissando la macchia rossa. «Basta. Ti prego».

«La verità è che io non c’ero, Virgil. Non ero là quando hai deciso».

La voce aveva un tono distaccato. Era fredda e piatta. Sottile come certe menzogne.

«Ricordi? Non c’ero quando hai rinunciato a quella vita. Non ero con te e non ti sono stato suggeritore, né padrone. Tu hai deciso. Tu. Nessun altro». Scosse la testa. «Non sono con te quando ti assale quella rabbia. Forse ti stupisce, ti sorprende saperti padre delle tue scelte. O forse ti spaventa non avermi come alibi?»

Virgil fece cenno di no con la testa. Avrebbe voluto sottrarsi a quell’assurdo processo alla sua anima, ma era tardi. Non poteva far altro che lasciarlo sfogare. Aprì gli occhi, si passò il dorso della destra sul mento e annuì.

«Il fatto è che tu non basti a te stesso, Virgil. E il doppio della metà non rende l’intero».

L’uomo parlava lentamente. Non c’era più traccia di ostilità nella sua voce.

«Una volta spezzato, l’intero non è più tale. Puoi avvicinare le due metà, puoi sperare di farle combaciare, ma non riavrai il tutto. È un processo irreversibile e tu l’hai avviato lasciandomi sedere qui la prima volta. Ricordi? Quella volta che ti sei aperto all’ineluttabile, accettando il rischio di incontrare uno sconosciuto per rivelargli quello che sapevi di te in cambio di una prospettiva nuova».

Allargò le braccia. «Un atto uguale e contrario non annulla ciò che è stato. È solo un atto in più, così come il doppio della metà non sarà mai l’intero».

Gli lanciò un’ultima occhiata e si voltò. Da fuori filtrava una flebile luce crepuscolare. L’uomo rimase a guardarla per qualche istante. Si girò, sorrise e si abbandonò alla poltrona. Sapevano bene che quella logica perversa non avrebbe ammesso repliche. Seduti l’uno in fronte all’altro, rimasero a guardarsi, come stessero cercandosi in fondo a quegli sguardi, dietro l’odio e la rassegnazione. Respiravano all’unisono e tutto era così immobile e fisso, in quella stanza, da rimandare a un vecchio dipinto.

E ancora si stavano fissando quando d’improvviso tutto andò in pezzi, e Virgil e il suo riflesso si scoprirono simmetrici nell’atto di allungare la mano verso la lampada.

Virgil con la destra, il suo doppio con la sinistra, spensero insieme la luce e si mossero, lasciando che il grande specchio tornasse a riflettere, nella penombra, l’unica poltrona della sala.

(aprile 2011)

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