Dark Light

È venuto da me oggi. Un tipetto a modo. Preciso e detestabile. Di quelli col nodo al collo. Regimental, si dice così?

Viene qui e dice che vuole sapere di Milton Collins. Che io l’ho conosciuto, dice, e ho tutte le informazioni che fanno al caso suo. Vuole scrivere un libro sui musicisti a Parigi. E così mi contatta, prende appuntamento e se ne arriva fin qua per sapere di Milton.

Mi chiede di raccontargli quel che so della vita di quell’uomo. Lei che ci ha avuto a che fare, mormora. E si liscia un polsino.

L’ho guardato. Lui, zitto. Aspettava. Ho detto niente. L’ho fissato tamburellando con le dita sulla scrivania.

Così, meditavo, questo damerino sui trenta dice che vuole capire. Capire. Proprio così dice. Come se fosse possibile raccontare di Milton oltre la sua musica – come se uno potesse spiegare quell’uomo e il suo tormento. Al primo venuto, per giunta. E magari in quattro parole.

Razza d’imbecille.

S’è seduto proprio qua davanti. I modi affettati, fin troppo formali. L’ho squadrato. Lui ha deglutito a vuoto. L’ho fatto aspettare un bel pezzo.

Non era tipo da capire uno come Milton. Neanche per idea. Non aveva i morsi all’anima, il damerino. E se hai l’anima rotonda e liscia, ancora infiocchettata che potresti renderla come nuova – be’, se hai l’anima a quel modo, non la puoi attraversare la vita di Milton, andare oltre la sua musica. Non è cosa per te.

Non far domande, avrei voluto dirgli. Lascia stare, se non ti alzi la notte, quasi tutte le stramaledette notti, col peso del ricordo che non ti fa dormire – come un’imposta chiusa male che sbatte di continuo col vento.

Perché mica lo capisci uno come Milton. Ah no. Non lo capisci, se non hai bisogno di far pace col tuo passato, se pensi che tutte le stagioni sono buone allo stesso modo. Se non ti tormenti di continuo, pensando che il meglio è già passato e quel che ti resta sarà sempre sotto quell’asticella.

A un certo punto m’è venuta una gran voglia di metterlo alla prova.

Di’, ti sei lasciato sbranare dal ricordo per anni, tu? Ci hai fatto a pugni fino a un momento fa? Ti alzi la notte con quell’imposta che sbatte? Perché se è così, allora può anche essere che tu riesca ad andare oltre la musica di Milton. E forse – ma anche in quel caso non è detto –, forse puoi afferrare anche l’uomo.

Ma non avrebbe capito. Si vedeva subito. Così l’ho mandato via. Gli ho detto due cose, un paio di cazzate che può trovare in rete, e l’ho salutato.

Gli ho detto quello che tutti sanno. Che Milton suonava il blues giù allo Steamin’ tre sere a settimana. Attaccava poco prima di mezzanotte e andava avanti fino alla chiusura a improvvisare col suo quintetto.

Gesù Cristo, se era gente quella! C’erano Elmore alla batteria e Charlie al contrabbasso e Little Dewey al pianoforte, e Milton divideva i suoi a-solo con quelli di Andrè al sax tenore. Qualche volta ci saltava dentro anche una chitarra, ma il quintetto restava la formula di base.

E quando ha voluto sapere com’era questo Steamin’, ho detto che era giù in uno scantinato, meno di ottanta metri quadri dietro a Place Saint Michel.

Quello neanche lo sapeva che in quegli anni, parliamo dei primi anni Settanta, se ti trovavi a Parigi e volevi ascoltare il jazz, ti mandavano giù allo Steamin’. Se avevi l’aria convincente. Altrimenti ti riempivano la testa di balle. Jazz? Qu’est-ce que le jazz? On n’y a pas joué depuis l’après-guerre, ce truc.

Sapeva niente, lui. Ma certa gente se lo ricorda ancora lo Steamin’. Quelli come me lo sanno bene che mica era solo un club, uno dei tanti, dove ascoltare il miglior jazz nel vecchio continente.

No, lo Steamin’ era qualcosa di più intimo, familiare. Mettiamola così: la tua vita rimbalzava come una pallina da ping pong da un lavoro alienante a una moglie opprimente? Bene, giù allo Steamin’ non avresti trovato una sola persona con cui parlarne. Nossignore. Là ci si andava per lasciare fuori certe cose. E per il buon jazz, certo.

Quello scantinato era un mondo a parte, e tutto quello che accadeva là dentro restava sotto la superficie delle cose e l’alba se lo portava via.

Con Milton la cosa funzionava suppergiù allo steso modo. Sapevi di trovarlo là almeno tre sere a settimana, spesso anche oltre l’orario di chiusura. Per il resto era un’ombra. Nessuno aveva idea di dove si cacciasse per il resto del tempo, né cosa facesse prima di venirsene a Saint Michel. Dove dormiva, dove mangiava, con chi facesse una cosa o l’altra, o entrambe.

A dirla tutta, nessuno si poneva realmente la questione. Bastava sapere che dal martedì al giovedì avrebbe aperto quella porta con la custodia nera in una mano, si sarebbe diretto al palco e, tirando fuori la sua tromba, avrebbe biascicato il suo «Ready Rudy?» rivolto ai ragazzi.

Perché dal quel momento, vedete, da quel momento avrebbe suonato il suo blues. E quando Milton attaccava il blues, i pensieri uscivano da quella porta e un soffio lieve ti si posava sul collo. E allora ti sentivi in pace, come se dalla vita non dovessi aspettarti altro. C’era solo quella melodia che volava sul tempo. Perché Milton non lo seguiva, né lo anticipava il tempo – ci volava sopra con la sua tromba, ecco tutto.

Le note lunghe, glissate; la musica che si abbassava e taceva in lunghe pause. Capite? Erano le pause a cantare il blues di Milton, lui suggeriva soltanto. Lo guardavi e ti sembrava lontano. Così lontano che pareva di sentirlo cantare da un altro mondo. Eppure, se alzavi gli occhi, lui era lì, le guance gonfie e la tromba inclinata a fissargli i piedi – a glissare una nota lunga una notte intera.

Ma queste cose, a quello venuto qui oggi, non le ho dette. Non le avrebbe afferrate. Non le avrebbe sentite, se capite cosa intendo. Macché, non avrebbe potuto capire uno come Milton, lui. E io, di sprecar fiato con una mezzasega come quella, non avevo voglia.

——–

Questo è il primo capitolo del mio primo romanzo, “Milton’s Blues”. Il romanzo ha ricevuto una segnalazione al Premio Calvino nel 2013. All’epoca, pur con un’agente letteraria, non ho trovato un editore che mi soddisfacesse e ho deciso di lasciare il romanzo in un “cassetto”. La storia mi piace ancora ma lo stile, nel frattempo, è cambiato. In futuro – forse – mi deciderò a riscriverlo e a proporlo a qualche editore.

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