Scuro Chiaro

Padova, ottobre 1740

«E questa musichetta impertinente. La senti anche tu? Ma forse sono le mie orecchie, è nelle mie orecchie che si è infilata questa musica, e mi perseguita anche di notte».

Schioccò la lingua e gettò lo spartito sul tavolo passandosi una mano tra i lunghi capelli scarmigliati. Rivolse lo sguardo accigliato al suo allievo.

Pietro scosse la testa. «Maestro, la musica di cui parlate alberga nel vostro cuore e nella vostra mente. Come posso dire d’averla sentita se non me ne avete che canticchiato un brano soltanto?».

Giuseppe si fece avanti, lo scansò con stizza. Afferrò il violino, chiuse gli occhi e intonò un Allegro in due quarti. Introdotta da accenti secchi e marziali, la melodia fluì liberamente nello studio. Era complessa, ricca di virtuosismi e abbellita dall’uso ricorrente del trillo.

Sferzate sugli acuti interrompevano le cascate di quartine e nell’insieme, in quell’aria, vi era un che di melanconico e al tempo stesso d’inquietante e sinistro.

Quando il Maestro depose l’archetto, Pietro si portò una mano alla bocca. Scuoteva il capo e tremava.

«Dove avete preso codeste sequenze? E quella vibrazione grave, quella coppia di note simultanee? Di grazia, Maestro, come avete scoperto questo… terzo suono?».

Giuseppe mosse un passo avanti frapponendosi tra l’allievo e il tavolo sul quale erano sparpagliate le pagine dello spartito, nascondendole alla vista di Pietro.

«Allontanati dalle mie carte» gli intimò. «Quel che hai sentito è solo una parte del secondo movimento. È bella, è difficile, ma non parla all’anima!».

Pietro indietreggiò. Le note, ora sì, risuonavano nelle sue orecchie. Si sentì turbato, scosso. Irretito da quella melodia.

Dischiuse le labbra per obiettare ma il Maestro lo anticipò: «Ora vattene. Debbo terminarla. Non è che un puerile tentativo di riprodurre ciò che mi tormenta da anni».
Si scoccarono un’occhiata. Pietro prese il cappotto e lo indossò senza distogliere lo sguardo da quello del Maestro.

Scricchiolio di legno maturo sotto i suoi passi.

Quando fu alla porta, la mano posata sulla maniglia, si voltò. «Quella che voi definite musichetta è in realtà una composizione di esotica e misteriosa profondità. Voi lo sapete, Maestro. Dovete completarla e orchestrarla. E sì, è impertinente: si è insinuata anche nelle mie di orecchie. Spero non mi tolga il sonno come accade a voi».

Un mese dopo, Pietro tornò a trovare il Maestro. «Domani debbo partire per Lucca» disse entrando nello studio e restando impressionato dal cattivo odore e dalle condizioni in cui versava Giuseppe. Era emaciato, smagrito, sporco e malvestito. La chioma arruffata, si muoveva a scatti. Lo sguardo spiritato e sospettoso si soffermava su tutto senza osservare nulla, a testimoniare un’assenza dell’io dalla realtà.

«Maestro, ma voi…».

Giuseppe lo interruppe bruscamente: «Vi ho lavorato giorno e notte. L’ho affinata e perfezionata. Debbo concluderne l’orchestrazione, ma prima che tu te ne vada voglio che l’ascolti».

Sbigottito, Pietro sedette mentre il Maestro ghermiva il violino sistemando gli spartiti sul leggìo. Lo ascoltò accordare lo strumento e dopo un breve silenzio la melodia prese a risuonare forte e decisa tra le pareti umide e scrostate della stanza in penombra. Strutturata in tre movimenti, la composizione colpì profondamente l’allievo. Era complessa, innovativa, inquietante. Esoterica e dolce al tempo stesso.

Quando Giuseppe ebbe terminato la cadenza finale con un lungo accordo minore, si accasciò sfinito su una vecchia seggiola.

«Che io non mi chiami più Pietro Nardini e lei Giuseppe Tartini se codesta musica non è stata dettata dal Demonio!» gridò l’allievo.

Tartini sollevò uno sguardo obliquo. «È così» ammise. «Mi apparve in sogno e la suonò per me, ma mi possa trascinare con sé al cuore dell’inferno se quel che udii quella notte non era di gran lunga superiore. E nemmeno Giuseppe Tartini sarà mai in grado di riprodurre quel suono perfetto e profondo».

In un accesso d’ira diede una manata al leggìo facendo volteggiare i fogli sull’assito sporco e graffiato. D’istinto, Nardini si chinò, ma Tartini lo spinse con violenza. «Lascia queste carte!» urlò strappandogli di mano il frontespizio sul quale l’allievo riuscì a leggere poche parole vergate con mano malferma: “Sonata per violino in Sol minore – Il Trillo del Diavolo”.

«Ora la sento anche io, Maestro. Non sono le sue orecchie, è anche nelle mie che si è infilata questa musica, e mi perseguiterà di notte» mormorò Pietro in preda al terrore.

Racconto pubblicato sull’antologia “Eufoniche presenze” con incipit di Paolo di Paolo (ed. Affiori, Gruppo Giulio Perrone, 2025).

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