Passo la pagina delle necrologie che usciranno domani sul giornale. Leggo nomi cognomi annunci date luoghi di funerali comunicazioni dei parenti.
Se c’è un errore – ortografia, sintassi, dati che non coincidono con gli annunci trasmessi – segno in rosso e trasmetto in poligrafia per le correzioni.
Tra i compiti del turnista serale c’è anche questo: guardare il volto di persone che non ha mai conosciuto e leggere il dolore di chi le ha accompagnate per una vita intera.
Questa sera in pagina ce n’erano sette o otto. Un nome mi ha colpito. Un uomo di mezza età “scomparso improvvisamente”. Frugo nella memoria e torno a un’estate di alcuni anni fa.
È lui.
Non è un caso di omonimia. La professione e l’età corrispondono.
Ho conosciuto quest’uomo, anche se in realtà non l’ho mai conosciuto. Ci sentivamo la sera sul tardi, per telefono. Mai incontrati di persona. Mi aveva cercato lui perché all’epoca mi stavo occupando di un’inchiesta su un tema di forte impatto pubblico.
Mi telefonò usando un numero criptato una sera tardi – ero in piazza a bere una birra con un amico. Ricordo nitidamente quel momento.
Si presentò con nome e cognome, pregandomi di dimenticarli immediatamente. Lo fece per assicurarsi la mia fiducia.
Mi parlò di alcuni retroscena. Alcuni aspetti della vicenda fino a quel momento non emersi.
Trovai le cose interessanti, ma non conoscendolo gli dissi che avevo bisogno di documenti ufficiali per poter scrivere ciò che mi aveva confidato. Anche perché, considerai, si trattava di fatti che avrebbero coinvolto a cascata diverse persone. Politici, presidenti di Cda, consiglieri.
Disse che mi avrebbe messo in grado di scrivere e ci salutammo. La mattina dopo, tra le mail, ne trovai due inviate da un indirizzo con tutta evidenza creato ad hoc.
Aprii gli allegati. Atti ufficiali di un ente pubblico.
Si trattava di riproduzioni di documenti originali, con firme, date e timbri. Stampai tutto e tenni le carte nel cassetto per quel giorno, finché, a tarda sera, l’uomo si fece risentire per sapere se mi fidavo.
Gli dissi che avrei scritto, ma che volevo alcuni documenti in originale. Le cosiddette pezze d’appoggio.
Me le fece avere il giorno dopo, in una busta chiusa consegnata in redazione da una terza persona.
Lessi tutto e cominciai a scrivere. Nei giorni seguenti ne venne fuori quello che i cronisti chiamano “notizia in esclusiva”.
In seguito mi fece avere altri documenti che continuai a pubblicare facendo parecchio rumore e ricevendo qualche minaccia di querela. Non una riga di quello che scrissi, alla fine, fu oggetto di contestazione.
Dopo un mese la fonte si prosciugò. Smise di passare informazioni e non chiamò più. Non ci sentimmo più – io avevo solo un numero criptato e lui non richiamò. Non ci incontrammo mai.
Avrei voluto chiedergli perché aveva fatto ciò che aveva fatto, anche se posso immaginarlo.
Dimenticai, come promesso sin dall’inizio, il suo nome.
Avrei voluto incontrarlo, dargli un volto. Ci sono riuscito, suo malgrado, questa sera. Quando quel nome sotto la fotografia mi ha riportato di colpo a quei giorni.
Portava i baffi e me l’ero figurato diverso. Non so in base a quale mia congettura. Ma tutti tendiamo ad attribuire un volto a chi non l’ha. Ne abbiamo bisogno – noi dobbiamo vedere. Così, quando gli elementi mancano, plasmiamo quel viso sulla base delle sensazioni e delle impressioni che quella persona suscita in noi.
Guardando quella foto ho riflettuto a lungo.
La vita sa essere cinica e noiosa. Raramente entusiasmante. Più spesso, semplicemente strana.
(gennaio 2010)