Dimmi che possiamo ancora scappare. Dimmi che non è tardi. Che non lo è mai stato. Dimmi che siamo ancora in tempo.
Perché ho bisogno di credere, adesso. Ho bisogno di quella sottile linea che separa la fine del sogno dal principio della speranza. Quella linea che sempre mi ha tenuto vivo. Alla ricerca.
Come l’occhio fissa l’orizzonte, irretito dai suoi contorni sfumati e teso nello sforzo impossibile. Lo sforzo supremo, inutile… Perché superare quel confine non è possibile, ma la speranza è là, tutta in quell’anelito. E chi vive senza l’oggi lo sa.
Perché adesso non so più a chi credere, se non a quella linea.
Vedi, qua dietro, alle mie spalle, non c’è nulla. Avanti, solo il deserto. E tra quelle rocce io vorrei perdermi. Dimenticarti. Dimenticarmi e camminare. Perché nel deserto nessuno può farmi male. Nemmeno io. E le domande sono troppe e tu non hai risposte. Le poche che hai non servono – il dubbio è feroce, mi sbrana vivo.
Non sono un eroe, io. Uno dei tanti, gli eroi di tutti i giorni. Li conosciamo, tu ed io. Ce n’è dappertutto. Gli eroi della vita comune – gli unici possibili al di fuori di una mitologia ormai sgretolata dal tempo.
Quelli che costruiscono in silenzio, poco per volta. Quelli che restano. Sorridono. Piangono come tutti. E cadono e si rialzano e ricominciano a costruire. Un giorno dopo l’altro. Perché la vita li sfianca ma non li abbatte.
Non sono un eroe, io. Sono nato sfiancato. La vita può solo uccidermi. Ho solo l’orizzonte. La speranza e l’inazione.
Pensavo che per una volta ce l’avrei fatta. Lo pensavo davvero. Poi è tornato. Mi ha abbracciato infondendomi il calore del vecchio amico. Mi ha preso per mano. Mi ha portato lontano dall’orizzonte.
“Smettila”, ha detto costringendomi a guardare le mie miserie.
Allora m’è presa forte la voglia di scappare. Correre avanti, verso quelle rocce e quel silenzio. Lontano da questo osservatorio privilegiato dove tu mi hai confinato.
Qui, dove tu hai pulito con una mano, dove hai fatto spazio per farmi sedere. “Guarda l’orizzonte”, hai detto. “Puoi andarci, se vuoi”.
Balle. Non c’è orizzonte per i codardi e non sarai tu a costruirmene uno. Tu con le tue frasi artefatte. Quante volte le hai vendute nella tua vita? Tu con le tue occhiate oblique. Le tue contraddizioni. Le tue incongruenze. Tu e i miei dubbi.
Loro. Tutti loro. Pronti a un saluto per polverizzare le mie giornate migliori. Il tuo passato e il mio.
Al diavolo il tempo. Nel deserto non c’è passato e non ci sei tu. Nel deserto dei sentimenti non si può soffrire. L’aridità delle emozioni è il Grande Calmante – la mano sulla fronte, l’abbraccio più rassicurante.
Sono stanco. Stanco di tutto questo, di questa miseria, di questa incapacità. Stanco di stare fermo. Voglio correre attraverso quella polvere senza voltarmi indietro.
Ma sono debole. Non sono un eroe. Il sentimento mi indebolisce e i dubbi mi dilaniano. L’inazione corrode la mia anima come ruggine.
Come quel relitto arenato. Proprio quello. Tu ci hai visto vita e storie mai raccontate. Io ci ho visto morte e consunzione. Io ci ho visto me stesso. Tu costruisci, io scuoto la testa. Tu parli, io non ti credo. Chi sono io per darti emozioni? Non sono un eroe, io.
Dimmi solo che non è tardi. E addio. Dimmi che l’amore non paga. Non paga mai. E tu non ci sei. E da quella porta non viene suono di chiavi nella toppa.
Quella porta mi separa dal mondo. E da te.
(ottobre 2014)