Dark Light

Ha preso la bottiglia da sotto il bancone, ha svitato il tappo e ha riempito un bicchiere stretto. Finito con il primo, ne ha colmato un secondo.

«Sai cos’è questo?» ha detto indicando col mento il collo della bottiglia.

Ho guardato. Uno stelo verde chiaro era immerso nel liquido. Sgorgando, l’alcol gli colava sopra facendolo flettere verso il basso.

«Questa è l’erba dove ha pisciato il bisonte» ha detto lui. «Così dicono» ha aggiunto appoggiando la bottiglia sul bancone perché potessi darle un’occhiata.

Ha posato i bicchieri su un vassoio. L’ha preso per il bordo e l’ha alzato con cautela.

«Questa è la vodka migliore al mondo» ha sentenziato andandosene.

Ho guardato la bottiglia. Bella, di un vetro tanto puro da sembrare una cosa sola col contenuto. Non ci fosse stata l’etichetta, ci si sarebbe potuto guardare attraverso come in una lente.

L’ho presa in mano. Era ghiacciata. Me la sono rigirata tra le dita. L’ho avvicinata al viso e l’ho osservato.

Immerso nella vodka c’era questo stelo lungo e sottile, di un verde pallido come i prati in autunno. Sull’etichetta, sotto il nome e una scritta incomprensibile, era disegnato un bisonte. Pascolava in un prato – ed era tutto. Be’, a sentire il mio amico, in quel prato il bisonte non ci pascolava soltanto. E sempre a sentire lui, di tanto in tanto passava qualcuno a tagliare l’erba per infilarne uno stelo in bottiglie come quella.

Un po’ come si fa con la larva nel mescal, in Messico. Né più né meno.

«Quella lì è la vodka migliore al mondo» ha detto tornando col vassoio vuoto.

L’ha ripetuto perché voleva che gli chiedessi di assaggiarla. Ma non mi andava. Avevo solo voglia di pagare il conto e filarmela. Andar via da là, da quella gente. Starmene da solo.

Ho sorriso. Ho rimesso sul bancone la bottiglia. Mi sono avvicinato alla cassa.

«Allora? Non la vuoi assaggiare la vodka del bisonte?» ha detto lui corrugando la fronte.

«Un’altra volta, Michele. Adesso devo andare».
«Che fretta c’è?»
«Nessuna fretta. Devo solo andare».

Al ristorante sono lui e suo fratello. Suo fratello è il cuoco. Sta in cucina e non esce mai. Michele prende le ordinazioni, serve al bancone. È un brav’uomo, lo conosco da anni. Suo fratello non so. Mai parlato con suo fratello.

«Allora? Sicuro che non la vuoi sentire?»
«Magari un’altra volta» ho risposto guardandomi intorno a disagio.

Un vecchio sedeva a un tavolo di legno addossato al muro. Leggeva il giornale tenendo in una mano una tazzina vuota.

Attraverso la porta a destra, in fondo al bancone, riuscivo a vedere un angolo della sala. Pensavo che sarebbero usciti da un momento all’altro. Volevo andarmene alla svelta.

Dalla porta è entrata la ragazza.

«Due caffè» dice a Michele, e quello si gira verso la macchina.

Sapevo dove andavano quei caffè. Mi toccava sbrigarmi o li avrei incontrati.

«Dimmi quant’è, Michele. Ho fretta».

Li ho avuti dietro per tutto il pranzo. Due anziani. In faccia non li ho visti, ma li sentivo parlare. Lui sedeva alle mie spalle e con la schiena mi sfiorava quasi, tanto eravamo vicini.

Hanno parlato tutto il tempo, a voce alta, come parlano i vecchi, e la voce di lei mi arrivava un po’ più di lontano. Doveva stargli di fronte.

Quando sono entrato li avrò pur visti, ma non devo averci fatto caso. Ho notato le due famiglie in fondo, quelle sì. E anche i due uomini seduti sotto la finestra di destra. Quelli li ho visti bene. Indossavano tute sporche e avevano le facce ispessite dal sole e dal freddo. Facce dure e scure, come il cuoio conciato. Mangiavano e non si parlavano.

I due vecchi no. Non li ho guardati. Però da Michele vado spesso a mangiare. Così non faccio troppo caso a dove mi mettono. Un posto vale l’altro. Mi siedo, mangio. Penso un poco. Poi passo di qua, al bar, che il caffè mi piace berlo in piedi.

Quando Michele ha poco da fare faccio due parole, altrimenti pago e me ne vado.

Ma oggi c’erano questi due vecchi. Hanno parlato a lungo e quando uno è solo, anche se non vuole, non gli riesce di non sentire i discorsi degli altri.

All’inizio si son detti cose banali. Si capiva che erano in imbarazzo. Ma dopo un po’ quell’imbarazzo non c’era quasi più e si parlavano come si parla tra vecchi conoscenti.

Lui ricordava una cosa, lei lo correggeva e lui diceva sì e aggiungeva un particolare.

E sono andati avanti così, a dirsi cose banali, ma l’hanno fatto con la confidenza di chi soffia sui ricordi. Ricordi belli.

Io mangiavo, e quelle storie mi salivano sulle spalle e colavano sul tavolo. Andavano a gocciolare sulla sedia vuota davanti a me.

Si capiva che erano tutti e due del paese e che tanti anni prima avevano quella confidenza, quella speciale confidenza che precede l’amore – o lo cela soltanto.

A un certo punto delle loro vite deve essere successo qualcosa e la confidenza si è fermata un passo prima dell’amore.

Lui se ne è andato, è stato via parecchi anni. Credo per lavoro. Questo non gliel’ho sentito dire, ma deve essere per forza così.

Deve essersene andato per tutto quel tempo, e nessuno dei due avrebbe voluto. Ma la vita non la puoi fermare. Ti ci puoi aggrappare, ma lei ti corre via di sotto i piedi.

È come l’acqua, la vita. Scorre via, si infiltra dove vuole. E hai un bel darti da fare, cercare d’arginarla con le mani nude – quella prende a scorrerti tra le dita, oltre che tra i piedi. Cola per le fessure, inzuppa i campi e quel che ti resta sono le dita umide.

E quello è il ricordo. E prima o dopo anche quello asciuga.

A quel tavolo, i due vecchi intingevano le dita nei ricordi. Un poco alla volta, come avessero paura di bagnarsi troppo presto le mani.

Dopo un momento di silenzio lei ha chiesto notizie dei figli. Lui ha parlato di quello che fa l’ingegnere e sta in città, poi dell’altro, che è impiegato alle poste e gli ha dato due nipoti. E si capiva che il vecchio era orgoglioso. Lo sentivo dalla voce. Gli sentivo l’orgoglio sgorgare dalla gola, come a riscattare una malinconia nascosta da qualche parte, giù nel bacino della memoria.

«E tua figlia? Sta bene, tua figlia?» ha domandato lui come a ricambiare la cortesia.

Lei ha aspettato un po’ prima di rispondere. Ha detto che non c’era tanto da dire. Non era contenta. La vedeva poco. Anche la nipotina la vedeva poco. Poi s’è fermata. S’è fatta titubante e ha taciuto.

Per un po’ non li ho più sentiti. Mi arrivava il rumore delle posate nei piatti. Nient’altro. Avvertivo il peso degli anni e il sospiro delle ombre.

C’era qualcosa in quello che non si dicevano. Qualcosa che diceva più delle parole sui loro figli, più di quelle sui nipoti. Qualcosa che diceva più del loro silenzio di vedovi che si ritrovano, soli e vecchi, al tavolo di un ristorante di paese, col bisogno di riempire le ore che è più urgente del piacere di vedersi.

Allora ho capito. Ho capito prima che lei parlasse di nuovo.

«Ma tu non hai voluto sposarmi» ha detto lei dopo tutto quel silenzio. «Non hai voluto».

Parlava a voce bassa, ora. Aveva un tono lieve, rassegnato. Forse sorrideva in quel momento, anche se dentro soffriva ancora.

Proprio quel sorriso che non ho visto, quel sorriso che ho solo intuito – ecco, quello m’ha tolto la fame. Solo quella frase. Quella calma e quel sorriso triste che non ho visto.

Ho adagiato le posate nel piatto e l’ho allontanato. Sono rimasto a fissare la sedia vuota di fronte alla mia. Non mi andava più di mangiare e c’erano pensieri invece che appetito, in fondo al mio stomaco.

La cameriera deve essersi accorta di qualcosa. È passata prima dai vecchi, ha preso i loro piatti, poi s’è fermata da me.

«Non mangi più?»

Ho scosso la testa. «Va bene così».
«Vuoi qualcos’altro?»
«No. Sto solo un poco qua. Il caffè lo prendo al banco».

Ha sorriso e se ne è andata.

I vecchi tacevano. Lui ha aspettato che la ragazza andasse, poi l’ho sentito muoversi sulla sedia. L’ha tirata un po’ avanti e s’è mosso ancora. Sentivo la sedia di legno mandare deboli scricchiolii.

«Lo sai, no, come vanno le cose?» ha detto a bassa voce. «La vita… Com’è la vita, lo sai, no? Le cose…» ha aggiunto, e si è fermato.

Lei non ha risposto. Nessuno ha aperto bocca per un po’. Sentivo solo il rumore in fondo alla sala – veniva dai tavoli con le famiglie.

Poi è venuta ancora la cameriera. Ha posato due piatti al tavolo dietro al mio. Loro hanno ringraziato e la ragazza è andata in fondo alla sala con passo svelto.

«Possiamo andare a camminare, domani. Se ti va…» ha proposto la donna. L’ha detto come se non ci fosse stato tutto quel silenzio in mezzo, e la domanda di prima e l’imbarazzo, le parole di lui.

«Io sono sola… Visto che sei tornato…». «Se non hai impegni» ha insistito.

Lui si è mosso sulla sedia. «Va bene. Due passi… Stiamo in paese. C’è bel tempo anche domani. L’hanno detto…»

«Se non hai impegni» l’ha interrotto lei. «Un giro nel pomeriggio. Magari andiamo giù al fiume. Ti ricordi la strada, eh? Ci andiamo così, per passare la giornata…»

Lui ha detto sì, che andava bene. Sembrava contento. E anche lei sembrava contenta. Non c’era più l’imbarazzo di prima e il silenzio – quel silenzio che si sentivano anche i passi della cameriera.

Sembrava che gli anni si fossero fatti da parte e le ore di vetro. Due vite avevano fatto pace col tempo, e tutto quello che era transitato in mezzo, in mezzo a quelle vite, era stato inghiottito dal rimpianto e dal ricordo.

«Va bene» ha ripetuto lui alla fine, e in quelle poche parole c’erano le cose che le avrebbe detto in quegli anni. Le cose che non erano andate e quelle che erano andate in un modo diverso da come tutti e due avrebbero voluto. C’erano due vite e il rammarico di non averle vissute in una, in quelle parole.

Allora mi sono alzato. Ho lasciato cadere il tovagliolo e sono uscito dalla sala senza voltarmi. Non li volevo vedere. Lui, soprattutto. Lui proprio non lo volevo vedere. Che dargli un volto non l’avrei sopportato e pensavo che vedere il suo volto di vecchio sarebbe stato come guardare il fondo di un abisso. Vedere troppo, insomma.

Quando ho raggiunto il banco e Michele ha attaccato con la faccenda del bisonte e del filo d’erba mi sono spazientito.

E quando se n’è andato a portare la vodka ai due operai con le facce dure ed è tornato e la ragazza ha chiesto i caffè, allora ho pensato che i caffè erano per i due vecchi e ho temuto che non ce l’avrei fatta a filare via in tempo.

Così non ho aspettato che Michele mi dicesse quanto gli dovevo. Ho lasciato un paio di biglietti, poco più di quel che pago di solito.

Sono uscito che quello se ne stava ancora là in piedi, a guardare il caffè gocciolare nelle tazze.

Una volta fuori, sulla porta, mi sono fermato a guardare i campi al sole.

Il vento ha soffiato su un lenzuolo steso lì accanto. È salito dal basso, ha spinto in su il telo bianco. Quello ha fatto una gran pancia e subito si è sgonfiato, è ricaduto tremulo. Ha ondeggiato un poco e si è fermato. Il lembo basso sfiorava la terra asciutta.

Sembrava danzarci sopra – lento e leggero. Danzava a filo di terra.

(13 dicembre 2012)

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