Urla sempre. Sbuffa e grida e impreca a ogni ora. La sento urlare quando esco sul balcone a dare acqua alle piante, la sera. La sento gridare da dietro quelle tre finestre lì di fronte quando sono fuori a fumare una sigaretta. Con le sue urla mi manda in malora il silenzio di questo cortile dove non viene mai nessuno.
Io guardo giù, cerco di non pensare, e intanto lei urla.
A volte non riesco proprio a sopportarla. Mi dico: «Adesso la chiamo, le dico di farla finita, che ne ho piene le palle di sentirla sbraitare a quel modo.»
Ma non capirebbe, andrebbe avanti comunque. E allora sarebbe anche peggio, perché a quel punto la mia carta io me la sarei giocata e altre non me ne resterebbero.
E poi come faccio? Le tiene sempre chiuse quelle imposte. E se non le apre nemmeno dopo che l’ho chiamata? Non so. Quando ci penso non mi pare una buona idea, così finisce sempre che lascio stare. Me ne resto là coi gomiti appoggiati alla ringhiera, a finire la mia sigaretta, e guardo giù.
Al centro del cortile c’è una pianta capitozzata. Credo che sia un tiglio. Be’, un giorno questo tiglio era alto sei metri, con le fronde che quasi toccavano la parete della casa di sinistra. Il giorno dopo era così com’è ora. Un tronco spoglio che sale su da terra per tre metri, col segno del taglio obliquo che mostra l’interno chiaro.
Non so perché l’abbiano fatta tagliare, quella pianta. Forse era malata. Oppure dava fastidio. Non ho idea. Un giorno sono venuti e l’hanno tagliata e basta.
Ero là che la fissavo anche ieri e a un certo momento da dietro le finestre ho sentito urlare. Se la pigliava col lavoro, col mondo intero, coi lavori di casa.
Poi si è sentita la voce del bambino. Cercava di farsi ascoltare tra le urla. Singhiozzava e chiamava la madre, ma lei non la finiva di urlare. Allora il bimbo s’è messo a piangere e fuori non c’è stata più pace. Alla fine, con tutto quel casino, era diventato un inferno.
Gli prendesse un colpo. È dieci anni che la sento urlare e rimbrottare il figlio. Dieci anni. E la voce del bambino è sempre uguale, per giunta. Come se non ne volesse sapere di crescere. Ha questa voce sottile che non matura.
Però lo capisco. Lo capirebbe anche un cretino che ha bisogno di attenzione. Lei no. Lei corre per casa a rassettare, urlando al bambino di tacere. E più urla, più la vocina implora. Dieci anni così, Cristo santo. Sempre uguale, quasi che il tempo si fosse dimenticato di quel bimbo che non cresce mai. Quasi che il tempo si fosse dimenticato di noi, tutti quanti. Di questo cortile, di noi che ci abitiamo intorno. Di me e di quella là fuori, le prendesse un colpo.
L’altro giorno ci pensavo – dico questa cosa del tempo. E pensavo che in questo cortile il tempo si è come fermato per tutti tranne per il tiglio, che a conti fatti è l’unico a mostrare un prima e un dopo.
Per il resto non mi viene in mente nessun cambiamento. I muri qua fuori, per dirne una, sono sempre quelli: grigi, di semplice intonaco, con la macchia d’umidità in fondo. Poi le inferriate scrostate dei balconi, le persiane verdi, quelle sempre chiuse della casa qui davanti. Tutto uguale. Preciso a dieci anni fa.
Anche il laghetto è uguale. C’è un laghetto vicino al tiglio – alla metà di tiglio rimasta. È poca cosa, un’ellisse cintata da pietre, lunga sì e no un metro e mezzo. Al centro ha un cannello che butta acqua di continuo. Le sere d’estate, con le finestre aperte, si sente un gorgogliare basso, costante. Uno si aspetterebbe di vederci dei pesci rossi, ma in dieci anni non ne ho visto uno. Chissà, magari i pesci c’erano, solo che per loro il tempo è passato come passa per tutti.
Tutti gli altri, dico. In ogni caso, se c’erano, ai pesci è andata meglio che a noi, qui, in questo cortiletto – che il tempo qui non passa mai. In questo buco, dove quella stronza urla in eterno la sua frustrazione – grida alla vita e a un bambino che non cresce, in un circolo di tedio grigio come questi muri.
Solo una volta m’è capitato di vederla.
Era un pomeriggio di fine estate e me ne stavo qui sul mio balcone. Fumavo una sigaretta e intanto fissavo l’acqua del laghetto. Pensavo a niente e per una volta non si sentiva gridare. A un certo punto ha aperto le imposte con rabbia, ha buttato le lenzuola a cavallo del davanzale, è tornata dentro e neanche mi ha guardato.
L’ho sentita imprecare due volte, poi ho sentito la voce di suo figlio. Il bambino chiedeva scusa per qualcosa, ma lei ormai aveva cominciato a strillare. Anzi, come il piccolo s’è messo a piagnucolare lei ha preso a gridare sempre più forte. Le pigliasse un colpo in questo istante per come ha gridato quella volta. Comunque, un minuto dopo è tornata ad affacciarsi. Aveva in mano altre lenzuola e questa volta mi ha visto.
È una donna piuttosto brutta, però è più giovane di quel che mi ero figurato. Ho pensato di dirle qualcosa. Ma alla fine non ho detto niente. Dalla faccia che aveva si capiva che razza di vita deve fare. Così non ho aperto bocca e le ho solo sorriso.
Lei mi ha guardato un momento. Mi ha fissato con la faccia seria e non ha nemmeno salutato. Ha ritirato le lenzuola di scatto e ha chiuso le imposte facendole sbattere.
Dietro i vetri accostati la sentivo singhiozzare debolmente.
(settembre 2010)