Dark Light

In fondo alla via c’è la vecchia magnolia. È là, alla fine del paese, tra quel che resta di un’antica cascina e una siepe d’oleandro, che lo si può vedere le sere d’estate.

Siede solo e guarda il sole morire nella volta rosata. Porta un cappello schiacciato anche nelle giornate più calde e tiene il capo un poco reclinato. Fissa lo sguardo sull’orizzonte, anche se la vista non è più buona. Chissà cosa vede, il vecchio.

Tiene il bastone con le mani, ben piantato a terra tra le gambe deformate e i piedi enormi, sempre gonfi.

«Come blocchi di marmo siete diventate» ripete a bassa voce alle sue gambe. «Blocchi di marmo inutili. Ancora un po’ e nemmeno fin qui mi porterete, alla mia magnolia».

Quand’era giovane, in paese lo chiamavano “Il campione” proprio per via di quelle gambe.

Correre gli era sempre piaciuto. Fin da bambino, quando si rannicchiava all’inizio della stradina dietro casa, partiva di scatto e si fermava cento metri dopo. Ansando, si domandava quanti secondi in meno avesse impiegato rispetto alla volta prima.

Poi scoprì i campi e le stradine di campagna. Quella fu la sua palestra. Correva per ore ai margini delle distese di mais, tra l’argine e il fiume, alzando polvere e sudando. E sempre finiva i suoi giri fermandosi sotto la magnolia a prendere fiato.

Gli amici ridevano, lo chiamavano “il campione”, e lo dicevano con la cattiveria che è propria di quell’età. Ma anche loro, in segreto, sospettavano che un giorno sarebbe diventato davvero un campione. L’ora di ginnastica a scuola lo dimostrava e dopo le medaglie erano arrivati i trofei, le coppe, gli attestati e le promesse. Non c’era competizione scolastica che il campione non vincesse.

Poi erano arrivati i vent’anni e la sua testa aveva cominciato a ingolfarsi di domande. Il lavoro alle assicurazioni s’inghiottiva il suo tempo e la sua sicurezza. Le domande lo assalivano, ma lui non aveva certezze né inganni cui aggrapparsi.

Si accorse presto che il tempo non era più suo, almeno nella misura in cui lo era stato in quelle lunghe corse tra i campi, e così smise di assecondare quel bisogno di moto che le sue gambe reclamavano.

Smise di correre e si fece malinconico. Non vide più la magnolia, se non distrattamente, uscendo dal paese con l’auto per andare al lavoro.

Poco più che trentenne, si sposò. Lo fece più per convenzione che per convinzione, e a quella donna, che il troppo amare e gli anni resero muta, non seppe dare felicità né figli. Tuttavia, se non fu buon marito, gli riuscì almeno d’essere un brav’uomo e un onesto lavoratore, così che la vita prese a scorrergli addosso, come le stagioni per la magnolia.

E se fu l’autunno a portarsi via sua moglie, fu l’inverno a restituirgli tempo e risposte. Il duro inverno della vita gli parlò con saggezza e semplicità. Capì così d’aver accettato, assecondando chi rideva delle sue corse, la resa impostagli dalle sue stesse paure. Aveva chiuso gli occhi sulle occasioni e sugli inciampi che il futuro nasconde per vestirsi della confortante monotonia di un eterno presente.

Seduto all’ombra di una pianta, si era lasciato invecchiare anzitempo; e là la sua vita si era fatta perpetua rappresentazione.

Gli è tutto così chiaro, adesso che il tempo è per lui attesa e non più occasione. È tutto chiaro in queste sere d’estate, quando, seduto accanto alla sua pianta, abbassa la testa e fissa quei petali di magnolia sparsi a terra. Gli ricordano le lacrime. Lacrime bianche sporcate di un viola tenue.

E qualche volta lo si vede picchiare i pugni sulle gambe malate e piangere così il rancore per una vita sprecata.

Perché le lacrime che abbiamo versato su ciò che non abbiamo avuto, presto o tardi asciugano.

Ciò che non abbiamo vissuto – è questo a darci il pianto inconsolabile.

(aprile 2011)

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